Crisi ambientale, il cane che si morde la coda

Fine 2018 e inizio 2019 con notizie non propriamente di buon auspicio su tre fronti distinti ma correlati:

a) allarme climatico lanciato dall’Ipcc (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite): “Il riscaldamento globale potrebbe superare la soglia di 1,5 gradi già nel 2030 anziché 2050”;

b) manifestazioni di piazza che hanno mobilitato migliaia di persone contro la precarietà economica sociale (“gilets jaunes” in Francia, lavoratori del tessile in Bangladesh);

c) inceppamento della macchina industriale europea, tra cui quello della “locomotiva tedesca” con un 2018 all’insegna della crescita negativa.


Tre impasse che hanno carattere sistemico: impossibile dissociare la dimensione ecologica-climatica da quella rispettivamente economica e sociale. All’osservatore distaccato non può sfuggire la contraddizione del modello socio-economico in auge: molto performante a livello di creazione di ricchezza, ma al contempo anche nel creare disparità sociali e precarizzazione crescente. Oltre tutto agendo in modo predatorio: non computa, e quando avviene lo fa in modo inadeguato, i costi di produzione e commercializzazione delle merci derivanti dall’uso e/o distruzione dell’ecosistema: acqua, aria, suolo, petrolio, gas, carbone, materie prime e minerali ecc. Tutte sostanze disponibili in quantità limitate. E dulcis in fundo provoca sconvolgimenti climatici estremi (aumento e violenza dei tifoni, precipitazioni o siccità, inondazioni ed elevazione del livello dei mari...), perdite umane e materiali, che oltre a distruggere habitat e risorse, buttano nell’indigenza totale un numero crescente di persone, costrette sempre più a emigrare da luoghi inospitali.


Pur essendo la meno appariscente, quella eco-climatica è l’emergenza più pressante: se non affrontata provocherà la distruzione dell’ecosistema della Terra (clima e risorse) favorevole alla vita umana.
Per affrontare la incipiente minaccia v’è una sola soluzione, condivisa all’unanimità dai firmatari delle convenzioni sul clima: abolire l’uso di combustibili fossili responsabili dell’effetto serra. La strategia scelta dalla maggioranza è l’orientamento di produttori e consumatori mediante gli strumenti di mercato: tassa sul carbonio (su tutte le sostanze che emettono biossido di azoto (CO₂), responsabile dell’effetto serra), quote massime CO₂ per paese, borse del CO₂ ecc. Per essere incisiva la tassa sul carbonio dovrebbe esser assai alta onde dissuadere rapidamente dall’uso delle risorse energetiche fossili.


L’applicazione delle misure, lasciata ai singoli paesi, ha fatto segnare una diminuzione delle emissioni globali di CO₂, ma in quantità insufficiente, tant’è che lo stock di gas a effetto serra è ancora aumentato. Ciò perché l’importo della tassa è troppo basso: oscilla tra i 15 e i 120 dollari la tonnellata di carbonio (CH 96 franchi), mentre il “range” indicato dagli specialisti è 500-800 dollari. Importo che resta una chimera considerate le pressioni crescenti di certe lobby che, come accaduto al Consiglio nazionale elvetico nel dicembre scorso, vogliono una sua diminuzione.


La strategia d’orientamento del mercato tramite la tassa sul CO₂ appare inefficace e inadeguata per ottenere l’azzeramento delle emissioni di carattere antropico in tempo utile. E anche qualora ci riuscisse potrebbe indurre le aziende a riversare sui consumatori i maggior costi derivanti dalla tassa, scatenando un effetto “boomerang”: riduzione del potere d’acquisto, contrazione dei consumi ed effetti recessivi. Situazione indigesta al capitalismo che necessita di crescita costante dei consumi per sostenere l’esigenza di profitto. Parrebbe che non se ne esca: “Il cane si morde la coda”!

Pubblicato il

17.01.2019 13:56
Ferruccio D'Ambrogio
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