Costretto a chiedere la pena massima

«Debbo dire che Stephan Schmidheiny a nostro giudizio ha un unico merito: quello di aver capito ben prima del pubblico ministero le proprie responsabilità». Il sostituto procuratore di Torino Raffaele Guariniello non è mai banale. L'ennesima prova l'ha data lunedì scorso nella maxi-aula del Palazzo di giustizia del capoluogo piemontese (dove andava in scena uno degli atti finali del processo Eternit) concludendo il suo ultimo intervento all'indirizzo della Corte con queste parole cariche di significati.

Parole che ben riassumono le verità emerse in due anni di udienze dello storico procedimento, il più grande mai celebrato in Europa, che vede alla sbarra il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis De Cartier in quanto responsabili per le oltre tremila vittime causate dalla loro multinazionale dell'amianto nelle cinque località italiane dove sorgevano degli stabilimenti fino alla metà degli anni Ottanta.
Chiamato a replicare alle arringhe difensive che hanno occupato le udienze delle ultime settimane (vedi anche articolo in basso), Raffaele Guarniello non ha potuto che confermare le richieste di pena già formulate in sede di requisitoria lo scorso luglio: vent'anni di carcere per entrambi gli imputati per omissione dolosa di misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro e disastro ambientale doloso permanente.
Ma ci ha tenuto a fare una precisazione, «una confessione» come lui l'ha chiamata: «Io non ho mai applicato come giudice e non ho mai chiesto come pubblico ministero la condanna a venti anni. Questa volta sono stato costretto a chiederla. Non solo per l'enorme gravità del danno, per la capacità di delinquere degli imputati, del vertice di una multinazionale, ma per l'intensità dell'elemento soggettivo», ha affermato. Parole forti per un magistrato che non ha mai fatto mistero della sua «avversione per le manette», come ebbe modo di spiegare l'anno scorso proprio in un'intervista al nostro giornale: «Non ho mai amato i provvedimenti che restringono la libertà personale. A me non importa tanto processare e mandare in galera le persone, quanto provare a eliminare il reato e far sì che la società recepisca le conclusioni investigative» (area numero 3 del 2010).
I due imputati di questo processo, ha argomentato Guariniello «per molti anni hanno agito e perseverato nell'agire con la consapevolezza che avrebbero provocato la tragedia che via via vedevano consumarsi sotto i loro occhi».
Insomma, Stephan Schmidheiny -che rilevò Eternit Italia dal coimputato belga nel 1972 e ne fu a capo fino al 1986, anno della chiusura dell'ultimo stabilimento- sapeva bene quello che stava facendo ed ha fatto di tutto per nascondere la pericolosità dell'amianto. Sia sul piano scientifico servendosi delle consulenze di pseudo scienziati sul suo libro paga sia su quello della comunicazione, orchestrando vere e proprie azioni di disinformazione, di depistaggio e di spionaggio, prima e dopo lo scoppio dello scandalo.
La procura ha trasmesso alla Corte una gigantesca documentazione probatoria fatta di testimonianze, atti congressuali, documenti strategici, corrispondenza e telefonate tra il vertice svizzero dell'Eternit e i dirigenti locali italiani.
Tra le numerose prove che inchiodano il miliardario svizzero la procuratrice Sara Panelli (che con Guariniello e Gianfranco Colace ha portato avanti la gigantesca inchiesta) ha rievocato un evento assai significativo, emerso a più riprese in due anni di dibattimento: il congresso di Neuss (Germania) del 1976, dove Stephan Schmidheiny riunì i dirigenti dell'industria mondiale dell'amianto per dire loro che l'amianto fa venire il cancro al polmone e il mesotelioma. «Sapeva tutto perfettamente», ha sottolineato il magistrato, ma poi ha provveduto a filtrare le informazioni quando si è trattato di comunicare verso l'esterno. Lo ha fatto fornendo direttive aziendali atte a non mettere a rischio gli affari: in un manuale destinato ai dirigenti locali non si accennava nemmeno al mesotelioma (la malattia da amianto più grave che compare anche a quarant'anni dall'esposizione e che uccide nel giro di poco tempo) ma solo al tumore del polmone e oltretutto attribuendone il rischio ad un uso inadeguato della fibra e soprattutto al fumo delle sigarette.
Un dettaglio questo che spiega tra l'altro le origini di una raccomandazione acclusa in un'occasione nel 1978 alla busta paga dei lavoratori dello stabilimento di Casale Monferrato (la cittadina piemontese dove l'Eternit ha già provocato oltre duemila morti), in cui venivano messi in guardia della dannosità del tabacco. E forse anche il divieto di fumare in fabbrica che venne introdotto nella sede di Niederurnen nello stesso periodo e di cui hanno riferito ad area numerosi ex lavoratori.
Insomma, ha sintetizzato il magistrato, siamo di fronte alla scelta dolosa di «minimizzare, distorcere e tacere le informazioni ai lavoratori e alla popolazione, di occultare le informazioni sulla cancerogenicità dell'amianto per ragioni economiche». Una strategia perseguita ben oltre la chiusura degli stabilimenti attraverso un'attività frenetica (costata milioni di euro) volta a frenare la diffusione delle notizie, a mantenere la vicenda entro i confini italiani e soprattutto a tenere fuori Stephan Schmidheiny cercando di addossare tutte le responsabilità sui dirigenti locali. Il compito era affidato a una società milanese di pubbliche relazioni dove la procura di Torino è riuscita a sequestrare una «spaventosa mole di documenti» che oggi sono carte processuali, elementi di prova che inchiodano lo svizzero. Almeno secondo la Procura della Repubblica di Torino.
Il processo riprende lunedì, quando prenderanno la parola per l'ultima volta gli avvocati difensori. E i due imputati. Ma solo in teoria, visto che non hanno sin qui mai presenziato in aula. La Corte dovrebbe emettere la sentenza tra gennaio e febbraio.

«A Casale la memoria non tradisce»

«Mi è parso eccessivo il tentativo di difendere gli imputati stravolgendo la realtà e sconfinando nella mancanza di rispetto della tragedia». Bruno Pesce, coordinatore del Comitato vertenza amianto (al centro dell'immagine), commenta così talune esternazioni dei legali di Stephan Schmidheiny nell'ambito delle arringhe difensive andate in scena nelle scorse settimane.
Tra i passaggi più controversi vi è sicuramente quello in cui l'avvocato Astolfo Di Amato, riferendosi alle decine di ex lavoratori dell'Eternit e cittadini che hanno portato la loro testimonianza al processo, ha insinuato che i loro ricordi sarebbero frutto di una «ricostruzione immaginativa dei fatti», indotta da una «rilettura collettiva» (attraverso manifestazioni e mobilitazioni sindacali in particolare) che avrebbe «proposto una verità diversa da quella storica».
«Debbo dire -commenta Pesce- che durante tutto il dibattimento i legali degli imputati avevano sempre tenuto un comportamento rispettoso nei nostri confronti, ma nella fase finale sono andati un pochino oltre».  Il passaggio sui ricordi annacquati ne è un esempio, perché, aggiunge Pesce, «la memoria non tradisce, perché in una realtà come quella di Casale Monferrato viene rinnovata ogni settimana con la scoperta di un nuovo caso di mesotelioma e con la gente che continua a morire di questa malattia, ma anche di tumore al polmone e di asbestosi».
«Le morti e i malati non si possono cancellare, così come non è possibile cancellare dati di fatto che riguardano la responsabilità degli imputati, i quali ancora prima di assumere incarichi di responsabilità ai vertici dell'Eternit sapevano della dannosità dell'amianto. È questo il significato di fondo di questo grande processo».
Ma la cosa che maggiormente ha «amareggiato» i famigliari delle vittime di Casale Monferrato è l'attacco sferrato dall'avvocato Di Amato alla loro Associazione. Associazione costituita nel 1988 che ha proseguito la battaglia avviata dal sindacato all'interno della fabbrica negli anni Settanta e che non ha mai smesso di battersi in favore della giustizia, per la bonifica del territorio devastato dall'amianto irresponsabilmente disperso nell'ambiente dall'Eternit e in favore della ricerca di una cura (purtroppo ancora inesistente) per il mesotelioma.
Riferendosi al fatto che la fondazione dell'associazione sia avvenuta due anni dopo la chiusura dello stabilimento di Casale Monferrato, Di Amato ha affermato che la cosa potrebbe far pensare a una «speculazione».
«È una parola che ci ha fatto molto male e non ho mancato di farlo notare personalmente all'avvocato Di Amato», commenta Bruno Pesce. «Non ci aspettavamo certo che in un processo come questo il termine "speculazione" venisse usato proprio per la nostra Associazione. Mi chiedo quale altra espressione dispregiativa dovremmo utilizzare noi per definire il comportamento criminale di Stephan Schmidheiny».
Schmidheiny che tra l'altro nei giorni scorsi avrebbe offerto, in gran segreto, una "donazione" di 18-20 milioni di euro al Comune di Casale per uscire dal processo, come aveva già fatto in estate con Cavagnolo. L'ennesima mossa subdola dello svizzero, a due mesi dal giudizio. 

Pubblicato il

11.11.2011 01:30
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