Ancora solo una ventina di anni fa, l’Europa era il centro vitale della ricerca farmaceutica. Oggi le cose non stanno più in questo modo, con il 70 per cento dei nuovi farmaci che viene sviluppato e registrato negli Stati Uniti. Tempo dunque di chiedersi perché le cose vanno così, e soprattutto come fare a farle andare diversamente. A parte le questioni culturali, che sicuramente giocano un ruolo, ma non sono poi così determinanti come alcuni pensano, bisogna tirare in ballo considerazioni di tipo squisitamente finanziario, che ben spiegano la faccenda, almeno dal punto di vista degli imprenditori e degli investitori. Il fatto, per altro ben noto, è che in Europa esistono delle leggi che impediscono alle case farmaceutiche di approfittare ad oltranza delle proprie scoperte, proteggendo i consumatori in maggior misura rispetto agli Stati Uniti, dove sono invece i produttori di medicine ad avere il coltello dalla parte del manico, grazie ad una legge creata appositamente per accaparrarsi investitori, e che garantisce praticamente diritti illimitati a chi sceglie di trasferire le proprie attività di sviluppo oltreoceano. Da un punto di vista strettamente finanziario, è chiaro che si cerchi di guadagnare il massimo da un investimento, ma da un punto di vista politico mi permetto di esprimere un certo dissenso per dei governanti che di fatto condannano i loro stessi elettori a strapagare i farmaci che useranno, solo per garantire una presunta crescita economica. In sostanza la scelta è fra un prezzo dei farmaci relativamente controllato, che costa però in posti di lavoro e al limite in possibilità di scelta, o in prezzi fuori dal controllo delle autorità in cambio di ampia scelta e posti di lavoro in più. In altre parole, il legittimo desiderio di farmaci efficaci, il più efficaci possibile, rimane un sogno. Delimitato dagli interessi del pubblico da una parte, e da quelli degli investitori dall’altra. Non è la prima volta che questi due tipi di interessi si scontrano. E ho paura che non sarà l’ultima.

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08.10.04

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