15 gennaio, a poche ore dall’annuncio della Banca nazionale svizzera (Bns) di rinunciare al cambio fisso franco-euro, il padronato parte all’attacco chiedendo la riduzione dei salari. Al di là dei proclami catastrofistici, dal fronte, le fabbriche, si registrano in Ticino poco più di una decina di casi di tagli. Per ora. Ma vi sono anche esempi di rifiuto degli operai di accettare le indecenti proposte. Il conflitto tra capitale e lavoro assume toni bellici, da guerra di classe si sarebbe detto un tempo. Le rivendicazioni degli ambienti padronali si susseguono a catena. La voce del padrone indica quale misura prioritaria la compressione del costo del lavoro. In altre parole, tagliare gli stipendi e aumentare le ore di lavoro a paga uguale. Pena la delocalizzazione e la soppressione degli impieghi. Dai più alti vertici istituzionali, arrivano aperture a tale misura. Johann Schneider-Ammann, ministro dell’economia ed ex patron di uno dei più grandi gruppi industriali svizzeri (Ammann Group), nel giro di poche ore è costretto a smentire l’intervista al Tages Anzeiger dove indicava la riduzione dei salari tra le misure possibili. Dichiarazione vera o fasulla, il macigno è lanciato nello stagno. Qualche giorno dopo, l’Associazione degli industriali ticinesi (Aiti) e la Camera di commercio chiedono al governo cantonale di sospendere l’entrata in vigore dei nuovi Contratti normali di lavoro decisi dopo la verifica del dumping in quei settori. Le due associazioni padronali propongono la deroga anche sui minimi salariali (3.000 franchi) già in vigore. Per la cronaca, la proposta è stata rifiutata dal Consiglio di Stato considerata la netta opposizione sindacale. L’economia del terrore La storia si ripete. E rapidamente, viste le continue crisi in cui il sistema economico incorre negli ultimi anni. Nel 2008, dopo lo scoppio della bolla speculativa creata da banche, fondi d’investimento e società finanziarie, le conseguenze ricadono sui piccoli risparmiatori e sui salariati. «Lacrime e sangue. I lavoratori dell’industria pagano la crisi a caro prezzo», titolava questo giornale nel marzo del 2009. 17 mesi dopo, «Il franco è forte? Ti pago in euro» titolavamo per descrivere l’inizio di una nuova offensiva padronale. Il fenomeno è storicamente documentato. Un anno prima della crisi speculativa del 2008, la ricercatrice Naomi Klein pubblicò il saggio «Shock economy». La tesi è la seguente: a seguito di un avvenimento scioccante, le popolazioni terrorizzate accettano passivamente cure economiche radicali alle quali non avrebbero mai ceduto in condizioni normali. È il trionfo delle politiche neoliberiste con tagli allo stato sociale, privatizzazioni e rinunce ai diritti acquisiti. Tra questi, i tagli ai salari e la richiesta di ore gratuite di lavoro. S’inserisce in questo schema il catastrofismo padronale seguito all’annuncio della Banca nazionale, amplificato non poco dai media, con l’effetto detonante del terrore sui posti di lavoro, con dipendenti pronti alla resa sui sacrifici unidirezionali richiesti . Diritti una volta persi difficilmente riconquistabili. Gli effetti concreti Al di là delle esternazioni pubbliche politiche o di categoria, sul fronte, nelle fabbriche ticinesi, si susseguono gli annunci di riduzioni salariali o ore di lavoro aumentate senza compenso. Ad oggi, stando al sindacato Unia, questi tagli riguardano poco più di una decina d’imprese, su un totale complessivo di quasi cinquemila aziende attive nel settore secondario ticinese. È successo all’Agie di Losone, alla Plastar di Muzzano e alla Mikron di Agno, tutte imprese firmatarie del contratto nazionale Swissmem. Il fenomeno resta dunque ancora circoscritto, ma il timore che si allarghi appare giustificato. Nel terreno arato dal terrore di perdere tutto, alcune aziende approfittano per adottare misure unidirezionali, senza sentire il bisogno di giustificarle con documentazione alla mano. Le misure più brutali sono avvenute nelle aziende prive di contratti collettivi di lavoro, dove il padronato ha il potere assoluto di imporre le sue decisioni ai dipendenti. Campione indiscusso dei tagli brutali è la Mes di Stabio. Ai suoi cinquecento dipendenti ha imposto tagli su tutto. I salari sono stati ridotti ai minimi obbligatori dal Contratto normale di categoria (3.000 franchi lordi), abolite tutte le indennità per turni, soppressa la quinta settimana di vacanza per i lavoratori di oltre 50 anni. Hanno persino tolto il litro di latte fornito ai dipendenti per limitare gli effetti tossici delle sostanze lavorate. Tagli che seguono quelli dello scorso anno, quando la Mes aveva disdetto il contratto collettivo aziendale, imponendo ai dipendenti contratti individuali dove è stata cancellata la tredicesima, un’indennità di turno e il premio di anzianità. Di fatto, il rapporto di lavoro alla Mes di Stabio si riduce al nulla del Codice delle obbligazioni. Deltacarb è un’altra azienda assurta agli onori della cronaca per aver imposto un taglio del 20 per cento degli stipendi retrodatati a prima dell’abbandono del cambio fisso. Un operaio, dimostrando gran senso di dignità, ha rifiutato il taglio, ed è stato messo alla porta dopo sedici anni di lavoro. Resistere è possibile. Gli esempi Che vi siano delle difficoltà, è innegabile. L’esportazione ticinese ha complessivamente perso un miliardo e mezzo negli ultimi 5 anni. Ma i contesti variano molto a seconda delle imprese. Vi sono aziende ticinesi che sono riuscite negli ultimi anni a diversificare i loro sbocchi commerciali, sostituendo la clientela di riferimento con nuovi spazi nei mercati americani e asiatici che godono di migliore salute economica rispetto a quelli europei. Senza dimenticare il risparmio nell’acquisto di materie prime all’estero che consente di attenuare gli svantaggi del franco forte. L’equazione franco forte uguale tagli salariali in molti casi non si giustifica, ma serve solo a garantire il profitto di azionisti o proprietari. Sempre la storia recente insegna. Poco prima di Natale 2010, nella fabbrica di componenti elettrici Trasfor di Monteggio la direzione comunica ai dipendenti che, complice il franco forte, la situazione aziendale è grave. Per superarla, i dipendenti dovranno lavorare due ore e mezzo la settimana gratis. Passate le feste e lo shock, i lavoratori si convincono che regalare 30.000 ore all’anno all’azienda non si giustifica. Danno quindi mandato al sindacato di organizzare lo sciopero. È un successo, l’azienda ritira la misura. Tempo 6 mesi, la Trasfor è acquistata dal gigante Abb, che evidentemente la giudica interessante e redditizia. Da Sant’Antonino arriva un altro esempio recentissimo. Mercoledì la quarantina di operai della Smb Medical ha rifiutato le tre “proposte” padronali; lavorare 4 ore gratis, taglio del 10% dello stipendio o riduzione dei posti di lavoro. I dipendenti si sono detti disponibili a lavorare di più se necessario, ma le ore devono essere contabilizzate nel monte ore, restando a loro disposizione. Non regalate. Negli ultimi quattro anni, nonostante che l’azienda lavorasse bene, non sono mai stati concessi aumenti. Alla prima difficoltà, la ditta chiede sacrifici a senso unico. Compatti, gli operai rispondono picche. |