Così lo Stato spiò i sindacalisti

Sul finire del 1989, l’intera Svizzera era sconvolta: una Commissione parlamentare d’inchiesta scoprì e rivelò le dimensioni dell’enorme apparato di spionaggio politico a livello federale. Alcune delle personalità spiate appartenevano ai sindacati svizzeri.

 

La Commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta dal socialista Moritz Leuenberger, incaricata di portare avanti l’inchiesta sull’affare Elisabeth Kopp (vedere sotto), scoprì quasi per caso l’archivio in cui erano contenute le informazioni di centinaia di migliaia di persone spiate. Secondo il rapporto del 22 novembre 1989, furono 900.000 le schede o fiches raccolte, dedicate a persone straniere, residenti o in visita, a cittadini elvetici, e a organizzazioni di diverso tipo. La maggior parte di queste schede era il risultato di una sorveglianza a tappeto nei confronti di militanti di sinistra, attivisti, organizzazioni progressiste e, non da ultimo, esponenti sindacali.

 

Andreas Rieger

Nel 1972, Andreas Rieger, studente universitario e militante della sinistra extraparlamentare, si recò davanti ai cancelli della ditta metalmeccanica Luwa Ag di Zurigo per distribuire dei volantini ai lavoratori. Come indica il rapporto della polizia, l’ex Presidente di Unia, che allora non aveva ancora iniziato la carriera sindacale, fu notato e segnalato alle autorità dal portinaio della stessa azienda. La polizia politica federale, ma anche quelle cantonali e cittadine, avevano molti addetti alla sorveglianza, ma non erano rari i casi in cui la segnalazione proveniva direttamente da un cittadino comune. La sorveglianza di Rieger continuò anche quando era diventato ormai un dirigente sindacale non più attivo a livello politico. In un altro rapporto della polizia del 1984, figura infatti come l’organizzatore di un incontro pubblico con un esponente di spicco del sindacalismo tedesco. Il tema “sovversivo” della serata: la lotta dei metalmeccanici tedeschi per ottenere la settimana lavorativa di 35 ore.

 

Vasco Pedrina

La “carriera” da spiato di Vasco Pedrina iniziò anch’essa agli albori degli anni Settanta e terminò sul finire degli anni Ottanta. Anche lui, come Andreas Rieger, era un militante della sinistra extraparlamentare. In uno dei primi rapporti della polizia a lui dedicati, è segnalato tra i partecipanti a una manifestazione di solidarietà nei confronti del Vietnam. Nel 1974, stando al rapporto, l’ex dirigente sindacale è chiamato a partecipare in qualità di oratore di lingua italiana al Primo maggio bernese. Vasco Pedrina, stando al rapporto, rinunciò all’incarico perché lo avrebbe troppo esposto nella sfera pubblica. Da poco infatti aveva ottenuto un lavoro alle Ferrovie federali svizzere e il rischio serio era quello di essere licenziato in tronco per attività comunista. La polizia comunque non perse tempo e, qualche mese più tardi, segnalò la “pericolosità” di Pedrina ai dirigenti delle Ferrovie che, comunque, vista la condotta ineccepibile del loro dipendente, decisero di non licenziarlo. Al contrario di Pedrina, molti militanti, segnalati in quegli anni dalla polizia politica, persero il lavoro, alcuni non riuscirono a fare carriera, altri ancora fecero molta fatica a trovare un impiego.

 

Zita Küng

Tra gli spiati, non mancarono anche attiviste e sindacaliste. Zita Küng, ex dirigente del sindacato edilizia e industria (Sei) e attivista femminista, fu anch’essa spiata per anni. È lei stessa a ricordare: «Sapevamo di essere spiate e ogni tanto, al telefono, ci prendevamo gioco della polizia che, probabilmente, utilizzava apparecchi tecnici non molto sofisticati, che rivelavano il processo di spionaggio in corso». Dopo lo scoppio dello scandalo, la reazione è stata però un’altra: «Vedere concretamente ciò che era stato fatto, le dimensioni del fenomeno, la poca professionalità dell’apparato di sorveglianza, è stato piuttosto scioccante. Pensavo inoltre anche alle persone, anche non militanti, che involontariamente avevo messo nei guai, citando il loro nome nel momento in cui venivo spiata in diversi modi. Lo scandalo delle schedature è stato un capitolo buio della nostra storia recente».

 

Bruno Cannellotto

Una storia ancora da scrivere è quella dei militanti comunisti di origine italiana e spagnola spiati dalla polizia. Per loro le conseguenze dell’apparato di sorveglianza furono drammatiche: oltre a perdere il lavoro, molti furono espulsi. Bruno Cannellotto, colonna italiana del sindacato Sei, ricorda il clima di paura a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta: «Le espulsioni di militanti del Partito comunista italiano erano all’ordine del giorno e si doveva operare in clandestinità. Ricordo una riunione in cui dovemmo uscire dall’edificio alla spicciolata perché sapevamo di essere sorvegliati da più poliziotti. Ricordo anche di aver smascherato casualmente uno spione, un romagnolo che parlava perfettamente il tedesco. Partecipava sempre ai nostri incontri e un giorno lo ritrovai per caso al commissariato di polizia che traduceva le mie dichiarazioni. I delatori di origine italiana non erano rari: l’anticomunismo non era esclusiva degli svizzeri».

 

Il Comitato

Dopo la pubblicazione del rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta, nel paese venne a crearsi un ampio movimento di protesta. Il primo passo fu quello di costituire un comitato contro «lo Stato ficcanaso» che, nel marzo del 1990, lancerà un’iniziativa per abolire la polizia politica. Tra gli animatori di quel comitato ci furono Paul Rechsteiner, ex Presidente dell’Uss, e Catherine Weber, segretaria sindacale Ssp, che ancora oggi si batte instancabilmente contro gli abusi di potere in materia di sorveglianza (vedere riquadro a sinistra). In quei mesi, furono organizzate diverse azioni di protesta nel paese che culminarono nella manifestazione del 3 marzo a Berna: in quell’occasione scesero in piazza più di 30000 persone per protestare con veemenza contro gli abusi dello Stato in materia di sorveglianza. Nei precedenti mesi, decine di migliaia di persone avevano fatto richiesta di poter visionare i loro dossier, creando non pochi problemi al governo, che aveva promesso di dare accesso alla documentazione a chiunque lo avesse richiesto. Oggi la situazione non sembra essere del tutto cambiata, anche se gli attori principali dello spionaggio sono diventati ormai i giganti della rete.

 

 

La campagna Schede oggi

L’associazione grundrechte.ch, nata nel 2006, si batte contro le pratiche odierne di spionaggio politico. L’associazione invita e aiuta cittadini e organizzazioni a richiedere alle autorità, come prevedrebbe la legge, informazioni relative a schedature attuali (info@grundrechte.ch).

 

 

All’origine ci fu una telefonata

L’enorme apparato di sorveglianza messo in piedi dalla polizia elvetica s’inseriva perfettamente nel clima di tensione provocato dalla Guerra fredda. Non è forse un caso, quindi, che lo scandalo delle schede, che segnò, almeno temporaneamente, un’interruzione della sorveglianza sistematica e capillare di attivisti politici su territorio elvetico, scoppiò proprio nell’anno in cui il Muro di Berlino cadde. La paura comunista, che aveva segnato gli anni precedenti, non era più giustificata e con essa la necessità di spiare militanti, sindacalisti e politici. Tutto ebbe inizio nel 1989, quando la prima donna di governo della storia svizzera, la radicale Elisabeth Kopp, fu costretta alle dimissioni. La sua colpa era quella di aver telefonato al marito dal suo ufficio governativo chiedendogli di lasciare il consiglio di amministrazione di una società sospettata di riciclaggio di denaro. Per cercare di fare luce su tutta la vicenda, venne istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta, che durante le indagini scoprì quasi casualmente le dimensioni sconvolgenti dell’apparato di sorveglianza: l’archivio della polizia politica, stando al rapporto, conteneva 900.000 schede dedicate per i due terzi a cittadini stranieri, residenti o in visita, e il resto a cittadini svizzeri, a organizzazioni e avvenimenti politico-culturali di vario genere.

Pubblicato il

21.11.2019 13:50
Mattia Lento