Cosa rimane del '68

A quarant'anni di distanza, alcuni sostengono che si possa iniziare a parlare di un fatto in termini storici. Leggere l'anno 1968 con gli occhi di uno storico dopo quattro decenni risulta però ancora estremamente difficile, tali e tanti furono i fatti e le emozioni che in quell'anno emersero con prepotenza a livello planetario. Un anno intenso cronologicamente, segnato dall'offensiva del Tet dei nordvietnamiti contro il governo del sud appoggiato militarmente dagli Usa, dai primi scontri tra studenti e poliziotti a Valle Giulia a Roma, dall'assassinio del reverendo Martin Luther King a Memphis (il leader non violento della lotta contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti), dal maggio parigino degli studenti e operai, dall'assassinio del candidato alla presidenza americana Robert Kennedy, dalla primavera di Praga soffocata in estate dai carri armati sovietici, dalla strage nello Zocalo di Città del Messico di studenti da parte della polizia, dai pugni alzati degli atleti afro-americani sul podio durante l'Olimpiade messicana. Sono alcuni degli avvenimenti più significativi di quel singolare anno, durante il quale la crescente diffusione della televisione rese possibile la "globalizzazione" dei fatti su scala planetaria, rendendo forse il mondo un po' più piccolo e i popoli più vicini. Quel concatenarsi di eventi e l'arrivo della generazione del boom demografico nata dal benessere economico dello sviluppo del dopoguerra sono una delle possibili spiegazioni di quella scossa di ribellione ad un sistema che non aveva saputo adeguarsi alla società capitalista fondata sul consumo di massa. Molteplici sono i fattori che vi hanno contribuito, ma quel che è certo è che gli effetti dei movimenti sociali di quel particolare anno sono durati fino ai giorni nostri. Quel che per brevità viene chiamato il "movimento del '68" ha tentato di agire sulla società su due livelli: i valori da un lato, i rapporti di produzione economica dall'altro. Nel primo livello ha avuto maggior fortuna, tanto da poter dire che ha vinto, nel secondo invece si può tranquillamente affermare che ha perso. L'esigenza di modificare le norme antiquate che paralizzavano un'intera società emergente era condivisa dalla stragrande maggioranza dei giovani dell'epoca non fosse altro che per il suo fascino liberatorio e trasgressivo. Cambiare invece i rapporti di produzione, la lotta di classe, molto più radicale in quanto a cambiamento, nonostante la diffusa vulgata marxista affascinava meno la gran massa di giovani nella società del pieno impiego e del benessere materiale diffuso. Per capire il diverso peso delle due componenti interne al movimento del '68, "area" ha voluto discutere con Giorgio Bellini, un militante nato in Ticino che nella sua storia personale racchiude le due anime di quel sogno collettivo.

Giorgio Bellini, il gruppo a cui apparteneva nel 1968, il Movimento giovanile progressista, era forse l'unico in Ticino caratterizzato da un forte interesse verso la classe operaia. Sebbene dichiaratamente marxisti, eravate in rottura con la linea del partito comunista di allora. Qual era la vostra posizione al riguardo?
I vecchi comunisti avevano quale riferimento l'operaio "classico" dei primi decenni del dopoguerra, il cui scopo era salvare le fabbriche e difendere i posti di lavoro. E lo avevano fatto con dei risultati anche notevoli. Invece la nostra linea era "Più vita, meno lavoro". Secondo noi gli operai dovevano lottare per liberarsi dal lavoro, non battersi per la difesa del posto di lavoro in quanto tale. Difendere il redditto, non il lavoro. I nostri interlocutori erano i nuovi operai, i giovani ai quali la catena di montaggio faceva schifo e cercavano il modo di lavorare il meno possibile. Il "nostro" operaio la fabbrica la voleva distruggere, arrivando al sabotaggio. Gli operai precedenti, invece, forse avrebbero ammazzato il padrone, ma la fabbrica non l'avrebbero mai toccata, per loro era sacra. Inoltre io ero comunque vaccinato dall'insurrezione ungherese del 1956 percepita a 11 anni; non avrei mai potuto aderire a un partito comunista.
L'aspetto generazionale giocava un ruolo importante?
Guardavo i trentenni e mi dicevo: "Spero di esser già morto a quell'età". Con Jerry Rubin pensavo che non ci si poteva fidare di chi aveva più di trent'anni.
Il movimento del '68 mirava a cambiare le regole sociali o a prendere il potere?
Miravamo alle due cose. La nostra ideologia leninista ci faceva sognare una presa del potere, senza esattamente sapere che cosa volesse dire. Scherzando, tra noi si diceva: "Speriamo di non prenderlo mai, altrimenti finiremo in un campo di concentramento". Il modo di vita invece lo abbiamo cambiato subito, quasi senza accorgerci. La società evolveva rapidamente, mentre la sovrastruttura, ossia il mondo dei valori, era bloccato in un rigido schema. Lo scontro tra il mondo che cambiava rapidamente e la cappa pesante dei valori bloccati ha portato all'esplosione del 1968. In quel contesto ognuno è stato costretto a prendere una posizione: o difendeva i valori tradizionali o voleva abbatterli.
Si può dire che lo stesso sistema capitalista aveva la necessità di sovvertire questa cappa pesante di cui si parlava?
Certo, il capitalismo ha anche questa forza innovatrice. Paradossalmente, noi che volevamo distruggere il capitalismo, la necessità del cambiamento l'avevamo capita prima dei capitalisti di allora. Di recente ho letto un'intervista a Daniel Vasella, l'attuale dirigente di Novartis. Nel '68 Vasella era un militante. Sarebbe però sbagliato considerarlo oggi un traditore. Semplicemente, all'epoca lui pensava che le regole sociali erano paralizzanti e quindi fosse necessario lottare per cambiarle.
Vittoria nella modifica dei rapporti sociali e sconfitta dell'anticapitalismo. Si può riassumere così l'esito del movimento del '68?
Forse, però con qualche distinzione di luogo e di tempo. Ad esempio, la "lunga coda" del '68 in Italia ha permesso di ottenere delle conquiste molto importanti per gli operai, che solo negli ultimi anni si è iniziato a smantellare.
Oggi molti "sessantottini" criticano il '68, riferendosi ai suoi "eccessi". Ad esempio nel settore educativo, anche tra chi non si è pentito, ritiene che l'assenza di autoritarismo abbia creato dei problemi e sia necessario un riequilibrio.
Non la faccio volentieri questa critica perché spesso chi la esprime lo fa in malafede. Devo però riconoscere che in parte è vera. Abbiamo distrutto un mondo di valori senza preoccuparci della necessità di costruirne dei nuovi. Personalmente me ne sono reso conto solo dopo la metà degli anni settanta, orientando la mia attività sulla costruzione di spazi espressivi e associativi. D'altronde era impossibile non essere anti-autoritario nel mondo degli anni 60 autoritario fino al midollo. L'antiautoritarismo ha poi liberato l'individuo, a volte con dei risultati positivi, a volte meno.
Il Sessantotto voleva anche dire collettivo in opposizione all'individuo?
In quegli anni consideravo solo il collettivo. Oggi invece credo che se non si cambia l'individuo, il mondo non cambia. Questo è un passaggio che forse abbiamo trascurato in quel periodo. Non sono un liberale, ma ritengo che non tutto il liberalismo sia da buttare. I diritti dell'uomo ad esempio. All'epoca mi facevano ridere, oggi invece dico: "Almeno quelli". Sono dei valori borghesi, ma non significa che bisogna abolirli. Piuttosto occorre salvaguardarli per migliorarli, aggiungendovi qualcosa, magari anche i diritti degli animali e delle piante. Oggi non sono contro i bisogni individuali, ma penso che bisogna avere maggiore capacità di costruire comunità.



Pubblicato il

30.05.2008 01:00
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