Così Uber ha (quasi) conquistato Ginevra

Viaggio nella città romanda, simbolo dell’arrogante presenza della multinazionale americana in Svizzera, ma anche della resistenza per imporre diritti e legalità

Pratiche illegali, diritti calpestati, lobbying aggressivo e ricorsi in giustizia: con questi metodi Uber ha cercato d’imporsi a Ginevra. Sindacati, autorità e tassisti hanno tentato in vari modi di opporsi. Ecco come.

Ginevra non è solo una città di 200.000 abitanti: è la Genève internationale, simbolo che richiama in riva al Lemano turisti, uomini e donne d’affari e personale diplomatico. Anche per questo, per Uber, Ginevra è una tappa fondamentale della sua espansione. La città è una sorta di laboratorio per testare in Svizzera il suo modello d’affari. Un modello che si fa beffe delle leggi e dei diritti sociali. Quando, nel settembre del 2014 sbarca a Ginevra, il colosso americano è consapevole di essere «maledettamente illegale», come scrive un manager in un messaggio reso noto a inizio 2023 dalla Tribune de Genève. Il quotidiano ha analizzato il filone svizzero dei cosiddetti Uber Files, una massa di documenti interni fatti trapelare alla stampa dall’ex dirigente Mark MacGann.


L’inchiesta non ha fatto che confermare quanto a molti era già chiaro: «Quando Uber è arrivata a Ginevra si è presa gioco della legge cantonale che regolamenta in modo restrittivo il trasporto passeggeri. Senza chiedere nessuna autorizzazione, ha iniziato a imporsi sul mercato proponendo prezzi inferiori del 30-50% rispetto a quelle dei taxi tradizionali». A parlarci è Jacques Roulet, storico legale delle associazioni dei tassisti che, dal 2014 fino ad oggi, ha condotto a fianco dei sindacati la battaglia contro Uber.

 

L’avvocato ci spiega l’impatto che ha avuto l’arrivo della multinazionale sul settore: «A Ginevra ci sono poco più di un migliaio di tassisti professionisti. Con Uber, questo numero è quasi raddoppiato facendo gravare sugli autisti tradizionali il peso di una concorrenza sleale, basata su un modello economico neocapitalista, costruito sulla precarietà dei lavoratori e sull’assenza di qualsiasi solidarietà sociale, ai margini delle leggi».

 

All’inizio, per Uber, tutto fila liscio. Autisti e clienti accorrono numerosi.

Eppure, per legge, possono operare solo agenzie di taxi o aziende autorizzate. Uber non ha fatto nessuna richiesta: si considera infatti come un servizio tecnologico, non come una società di trasporto. Nel marzo 2015, le autorità cantonali decidono però di vietare la sua attività. La multinazionale fa ricorso. Non sarà l’ultimo.

Un accordo segreto


Il 6 maggio 2015, tre dirigenti di Uber – tra cui la futura gola profonda Mark MacGann – incontrano Pierre Maudet, il consigliere di Stato incaricato del dossier. La riunione è stata resa nota solo nel 2023 grazie agli Uber Files. Dalle email emerge che, quando lasciano l’ufficio del politico, i tre manager sono entusiasti. «Non ho avuto l’impressione che si aspettasse che ci fermassimo, e nemmeno che volesse farlo», annota un direttore di Uber. Di fatto, l’incontro ha portato ad una sorta di accordo segreto che prevede che, in cambio di alcune concessioni, l’azienda potrà continuare le sue attività. Poco importa se la giustizia, nel frattempo, ha stabilito il contrario.
Il colosso americano continua così ad operare indisturbato fino a quando, nel luglio 2017, entra in vigore una nuova legge. Voluta da Pierre Maudet, quest’ultima integra le cosiddette piattaforme nella regolamentazione dei trasporti di persona.


A fine 2018, l’avvocato Roulet ha presentato una denuncia penale in relazione alla gestione del dossier da parte di Maudet: «Ho chiesto di verificare se alcuni fatti potessero costituire reato, come l’abuso di autorità o la corruzione».

 

La denuncia è stata archiviata, ma ancora oggi – alla luce anche degli Uber Files e della condanna definitiva di Maudet per un’altra vicenda – il legale nutre dubbi sull’indulgenza del politico nei confronti di Uber: «Non capisco come il Cantone abbia autorizzato la multinazionale a operare quando i tribunali hanno confermato le decisioni di divieto. Tanto più che non un solo franco del cliente ginevrino di Uber resta a Ginevra, dato che i soldi partono per un conto bancario in California».

La legge della giungla


«Uber si è sempre presentata come un’azienda moderna. In realtà siamo di fronte a un ritorno al passato, con la presenza, come agli albori della rivoluzione industriale, di una massa di pseudolavoratori autonomi che si assumono tutti i rischi di un’azienda che invece si accaparra ogni profitto». Se c’è qualcuno che, a Ginevra, conosce il dossier Uber nei dettagli, questo è il sindacalista Umberto Bandiera. Prima per Unia, poi per il Sit, Bandiera ha coalizzato gli autisti assieme ai quali si è battuto per i loro diritti. Un lavoro non certo semplice: «Inizialmente anche all’interno del sindacato non era chiaro se e come ci si dovesse prendere carico dei precari della digitalizzazione».

 

Presto, però, si è capito che la presenza di Uber a Ginevra era sinonimo di tutta una serie di abusi e pratiche sospette. Su tutte il sistema introdotto dalla multinazionale volto a subappaltare a decine di cosiddette “aziende partner” l’assunzione degli autisti. Aziende perlopiù basate nel Canton Vaud che assumevano personale frontaliero operativo a Ginevra. «Si è creata una vera e propria giungla – spiega Umberto Bandiera – con varie ditte che hanno abusato di lavoratori che non conoscevano le leggi svizzere offrendo loro contratti aberranti».

 

Oltre ai salari non pagati, il sindacalista ricorda il superamento del massimo di ore lavorative settimanali e il mancato pagamento dei contributi sociali. Dopo mesi senza stipendio e orari massacranti una parte si è arresa, ma alcuni hanno scelto di far sentire la propria voce: a fine 2017, per la prima volta in Svizzera, gli autisti di tre aziende partner di Uber hanno scioperato. La situazione si è ripetuta qualche mese dopo dove, malgrado le promesse del colosso americano, l’opaco sistema delle società partner continuava a farla da padrone.

Gli autisti sono dipendenti


A seguito dell’implicazione di Pierre Maudet nello scandalo per un controverso viaggio ad Abu Dhabi, il dossier Uber finisce nelle mani di Mauro Poggia, ex avvocato dei taxi. Il cambio è radicale: nell’autunno 2019, il Cantone stabilisce infine che Uber è un’azienda di trasporto e gli autisti dei dipendenti. Il Cantone vieta al gigante californiano di continuare la sua attività, ma un ricorso con effetto sospensivo gli permette di operare come se nulla fosse.  


Dopo quasi tre anni, lo scorso 30 maggio, il Tribunale federale conferma la scelta del Cantone. «Si tratta di una decisione storica. Per la prima volta la più alta corte del Paese ha dichiarato che gli autisti di Uber hanno, per legge, lo status di dipendenti e non di lavoratori autonomi. È una decisione importante, perché lo status di dipendente definisce il quadro delle condizioni di lavoro, della retribuzione e della protezione sociale» ci spiega Fabienne Fischer, la consigliera di Stato oggi incaricata del dossier.

 

Vicenda conclusa? Certo che no! Una settimana dopo la pubblicazione della sentenza, il Cantone annuncia di avere trovato un accordo con Uber: di fatto, formalizzando l’impegno a mettersi in conformità con la legge, la società è autorizzata a continuare. Come? Tramite una società partner, la Mitc Mobility. I circa 800-1.000 autisti Uber registrati nel Cantone ricevono un sms in cui si chiede loro di confermare il trasferimento a questa azienda. Poco più di 200 accettano, consentendo al colosso americano di riattivarsi – per il tramite di questo partner – sul mercato ginevrino. Una decisione, questa, che ha scioccato Umberto Bandiera: «Ho fatto appena in tempo a gioire per la sentenza dopo anni di battaglia che abbiamo dovuto gestire la collera di centinaia di autisti preoccupati del fatto che Uber continui a non assumere la propria responsabilità di datore di lavoro». Viene così convocata un’assemblea con oltre 150 autisti che chiedono il pagamento retroattivo di salari e contributi sociali.


Il mese di luglio 2022 è piuttosto caldo nelle strade di Ginevra. Non solo per le temperature, ma anche per le continue proteste di autisti e tassisti. Fortemente criticato, il Cantone apre delle negoziazioni con i sindacati e la multinazionale.

 

Le trattative, però, falliscono. A quel punto, tocca alle autorità cantonali prendere la propria decisione: validando una proposta di Uber stessa, il Cantone le impone il pagamento di 35 milioni di franchi fra contributi sociali e rimborsi per conformarsi alla legge per il periodo 2019-2022. Una cifra, questa, che sembra importante, ma che è contestata da una parte degli autisti: «Questa proposta sembra far felice più Uber che i lavoratori. Trattandosi di un forfait tanti obblighi legali non sono indennizzati, come l’integralità del tempo di lavoro (ossia il tempo di connessione), dei contributi sociali o il pagamento delle spese effettive» spiega Bandiera.

La battaglia dei dati


«Quelli che abbiamo in mano sono strumenti rivoluzionari per la giustizia». L’avvocato Francesco La Spada è entusiasta quando ci spiega come ha avuto accesso a una massa di informazioni che non avrebbe potuto sperare di ottenere per difendere i suoi clienti, gli autisti di Uber. Entro il 31 gennaio 2023, i guidatori dovevano decidere se accettare l’indennizzo offerto dall’azienda – sulla base della decisione presa dal Cantone – oppure se rifiutare e adire il prud’hommes, il Tribunale del lavoro.

 

Appoggiati da alcuni legali come La Spada e Fabrice Coluccia, alcuni autisti hanno scelto questa possibilità che potrebbe portare davvero giustizia. La questione ruota attorno ai dati dei guidatori. La proposta di Uber si basa su stime e non su dati reali: all’apparenza non c’è quindi modo di sapere se le offerte sono commisurate al lavoro effettivamente svolto. La Spada si è così rivolto al matematico e specialista della protezione dei dati Paul-Olivier Dehaye. Basato a Ginevra, quest’ultimo è noto per avere contribuito a svelare lo scandalo Cambridge Analytica, società che aveva raccolto senza consenso i dati personali di milioni di account Facebook e li aveva usati per scopi di propaganda politica.

 

Dal 2017, Dehaye ha già assistito gli autisti di Uber in Olanda e Inghilterra nei loro sforzi per ottenere i propri dati: «In questo modo, questa popolazione isolata, difficile da unire, costruisce una leva collettiva contro la multinazionale» ci spiega al telefono il matematico.


Dalla collaborazione tra La Spada e Dehaye sono nati due strumenti capaci di raccogliere e analizzare i dati per poi calcolare quanto dovuto da Uber a ogni dipendente. «Grazie a questi sistemi, siamo stati in grado di tracciare le carriere dei dipendenti degli ultimi cinque anni in poche ore. Se avessi dovuto fare questo lavoro manualmente, avrei impiegato quasi un anno per un singolo file» ci spiega l’avvocato. «Nel caso di Ginevra – racconta Dehaye – Uber si è sempre rifiutata di trasmettere i dati grezzi. Una cinquantina di autisti sono riusciti a ottenerli passando direttamente dalla sede centrale dell’azienda nei Paesi Bassi, che è soggetta alla legge europea sulla protezione dei dati, che obbliga le aziende a trasmettere le informazioni sui dipendenti».

 

Secondo il ricercatore, è indubbio che questi strumenti aprano ora nuove prospettive nel campo del diritto del lavoro: «Le persone lasciano tracce digitali ovunque. I dipendenti potranno riappropriarsi di questi dati per difendere i propri interessi. Sarà un gioco che cambierà le carte in tavola».

 

Nel caso specifico di Ginevra, con questi dati si spera di ottenere giustizia in tribunale: «Ci può essere una differenza di diverse decine di migliaia di franchi tra le proposte di Uber e i nostri calcoli», confida l’avvocato La Spada. Per sapere se il Tribunale darà loro ragione, ci vorranno però alcuni anni.


Nell’attesa di vedere cosa succederà, la saga Uber non è certo finita. Di recente, la Rts ha reso noto che il Cantone ha dichiarato Mitc e altre due società partner di Uber non conformi alla Legge federale sul collocamento e il personale a prestito. Le autorità hanno quindi vietato alle tre aziende di operare, poiché non in regola. Una decisione contro la quale è stato fatto ricorso con effetto sospensivo. Insomma, invece che mettersi in regola, Uber continua a prendere tempo. Ancora e ancora.

Pubblicato il

16.02.2023 09:38
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