Vendita

Coop, per me, per te. E per i dipendenti? Vi sono almeno un paio di motivi per dubitare dell’attenzione riservata ai propri collaboratori dal gigante della distribuzione elvetico. Motivi perlopiù sconosciuti alla sua affezionata clientela, perché raramente di dominio pubblico.

Pochi sanno, ad esempio, che da diversi anni Coop assume quasi esclusivamente a percentuale ridotta per impieghi da venditori. La forma contrattuale “di tendenza” è la garanzia di impiego tra le 8 e le 20 ore settimanali. Una tendenza generalizzata nell’intero ramo. La Coop, al pari dei suoi concorrenti, sostiene che questa modalità contrattuale precaria copra un bisogno delle stesse collaboratrici, poiché consentirebbe meglio di conciliare la cura dei figli con il tempo di lavoro. In alcuni casi potrebbe essere vero, ma vista l’ampia diffusione di questa tipologia contrattuale ormai diventata strutturale, è molto più probabile che la flessibilità oraria risponda all’interesse aziendale d’impiegare il personale quando conviene.
Avere dati certi sulla diffusione dei contratti precari è quasi impossibile (solo l’azienda la conosce nel dettaglio), ma dei riscontri si trovano osservando nei lunghi periodi le offerte di lavoro pubblicate sul portale del gruppo. Ad esempio, degli attuali 3 impieghi a concorso, due sono a 8-20 ore, mentre il terzo quale macellaio è al 70%.


Altre cifre interessanti si possono desumere dai rapporti annuali pubblicati dal gruppo. Confrontando gli ultimi cinque anni, si scopre che Coop ha aperto quasi cento nuovi supermercati sul territorio nazionale, 94 per la precisione. La logica vorrebbe che ad un’espansione dei punti vendita, corrisponda una crescita d’impieghi. Eppure, confrontando il rapporto annuale del 2014 con quello dell’anno appena trascorso, si scopre che in cinque anni il personale impiegato nei supermercati Coop è diminuito di quasi duemila persone (-1.927), equivalenti, in tempi pieni, alla cancellazione di circa 900 posti di lavoro.  


In soldoni, nei supermercati della Coop vi lavora meno personale fruttando maggiori utili aziendali. È la tanto decantata produttività dei lavoratori, accresciuta parecchio in Coop nell’ultimo decennio. Lo scorso anno, i soli supermercati hanno fruttato un utile netto superiore alla cinquantina di milioni. Se aggiungiamo il fatto, misconosciuto al grande pubblico, che da diversi anni il gruppo non versa aumenti lineari ai suoi dipendenti, si arriva alla conclusione che le venditrici e i venditori dei supermercati, non hanno beneficiato della crescita della ricchezza prodotta col loro lavoro.
La dinamica della riduzione dei posti di lavoro e la parallela crescita dei tempi molto parziali, non è certamente un’esclusiva della Coop. Vi sono catene di vendita al dettaglio dove la situazione è ben peggiore. È il caso della Lidl, che anni fa si premurò di annunciare al pubblico di aver alzato i salari minimi a 4mila franchi, omettendo però di precisare che la quasi totalità dei suoi dipendenti è al 50%. Senza dimenticare diverse catene di vendita internazionali, in particolare nell’abbigliamento, che arrivano persino a garantire contrattualmente zero ore settimanali d’impiego alle dipendenti.


Per dimostrare nei fatti la propria responsabilità sociale, la Coop prevede nel regolamento la cosiddetta clausola di stabilizzazione. «L’impresa si impegna ad assumere a salario mensile, dietro loro esplicita richiesta, i collaboratori rimunerati con salario a ore che in un arco di tempo superiore ad un anno abbiano lavorato mediamente almeno il 50% dell’orario di lavoro normale». Una norma finalizzata ad impedire il precariato perenne delle dipendenti a ore, consentendo il passaggio a salario mensile. Un nobile intento, smentito però nei fatti da una lettera “preventiva” sottoposta ai collaboratori a ore nel mese di maggio.


Stando al documento in mano a Unia, si chiede ai potenziali dipendenti beneficiari della norma stabilizzatrice, di rinunciarvi «deliberatamente». Nella lettera, il gruppo specifica che il dipendente ha la facoltà di revocare successivamente la dichiarazione di rinuncia al passaggio mensile. Lecito chiedersi quanto vi sia di spontaneo nel scegliere o meno di firmare un documento proposto dal tuo diretto superiore, cioè da colui che deciderà quante ore lavorerai nel prossimo futuro. Un modo di agire che preoccupa il sindacato. Unia ipotizza che la dirigenza tema un’ondata di richieste di regolarizzazione del tempo di lavoro da parte dei suoi collaboratori più precari. Ciò confermerebbe che la sottoccupazione, ossia le persone impiegate a tempo parziale che vorrebbero lavorare di più, sia un fenomeno ben reale anche all’interno della Coop.


Vi è poi un altro documento sottoposto al personale a metà maggio che preoccupa il sindacato. I dipendenti sono invitati «entro cinque giorni» a dare il consenso «a svolgere la propria attività secondo gli orari di apertura, (domenicali, festivi e serali inclusi)». Unia teme che la lettera, inviata ai soli collaboratori ticinesi, sia il preludio dell’estensione oraria consentita dalla nuova legge vendita cantonale, aspramente combattuta dal sindacato. Si ricorda infatti che i commerci in Ticino saranno autorizzati per i prossimi mesi ad aprire dalle sei del mattino alle dieci di sera, sette giorni su sette, festivi compresi. A beneficiarne potranno essere quei negozi la cui superficie di vendita è inferiore ai 200 metri quadri. Ciò dovrebbe escludere le filiali Coop o Migros, ad esempio. Ma l’esperienza del blocco Covid insegna che potrebbe bastare sbarrare l’accesso alla clientela ad alcuni reparti, rispettando così la superficie di vendita di 200 metri quadrati. Nei prossimi mesi si vedrà se il sospetto sindacale avrà qualche fondamento.


Stando al sindacato, Coop non è certamente il peggior datore di lavoro nella vendita al dettaglio. Il problema reale è la dinamica negativa dominante da anni nel settore. Dinamica a cui anche la Coop ha scelto di contribuire, nonostante la sua posizione di leader nella vendita al dettaglio in Svizzera.

Pubblicato il 

17.02.21
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