La pensione (che non c’è) inizia a fare paura: in Svizzera si avverte la mannaia che incombe sulle persone quando arrivano all’età dell’Avs. Non sorprende, dunque, che in una marea abbiano sottoscritto il referendum contro la riduzione delle rendite nelle casse pensioni. L’ampia alleanza, di cui fa parte anche Unia, oggi a Berna ha consegnato ben 147'726 firme contro la riforma LPP per contrastare i peggioramenti previsti. Ma che cosa prevede questa riforma contro cui si oppongono sindacati, Partito socialista, Verdi e le riviste indipendenti di tutela dei consumatori? Per i referendisti, la questione si può riassumere facilmente: pagare di più per avere pensioni più basse. Per rendere l’idea: per molte persone, se la modifica di legge venisse accettata, comporterebbe tagli alle rendite fino a 3'240 franchi all’anno. Inoltre, le deduzioni salariali per il secondo pilastro aumeterebbero sensibilmente soprattutto per chi ha un reddito basso. L’invito dei referendisti è dire NO alla LPP 21, riforma per la quale si voterà presumibilmente nel mese di marzo 2024. Pagare di più per ottenere rendite più basse? «Le persone in Svizzera non vogliono e non possono permettersi questa riforma», ha dichiarato la presidente di Unia Vania Alleva al momento della consegna delle firme. «Con questo progetto, il denaro passa dalla dipendente dell'industria alberghiera e della ristorazione o dall'addetta alle cure direttamente al Paradeplatz», perché mentre le rendite delle casse pensioni si ridurrebbero, il settore finanziario continua a fare utili miliardari con il secondo pilastro». Ulteriore peggioramento per le donne
Dopo l'AVS 21, anche questa riforma comporterebbe un ulteriore peggioramento per le donne. Proprio la generazione colpita dall'innalzamento dell'età pensionabile dovrebbe pagare contributi salariali più elevati per il resto della vita lavorativa e riceverebbe un salario netto inferiore. E in cambio, al momento della pensione, otterrebbe una rendita inferiore o al massimo uguale. La situazione delle donne è molto fragile, ma pare non essere un tema prioritario per la politica. Proponiamo la testimonianza di Maria, pensionata svizzera: una donna che nella vita si è data molto da fare per conciliare vita familiare e professionale e oggi, da poco in pensione, fa magri conti. Incontriamo Maria, che conosciamo da anni, in piazza durante lo sciopero del 14 giugno: «Ora che sei in pensione, un caffè riusciamo a berlo?». Lanciamo l’invito: Maria abita a Lugano, proprio nella strada parallella alla nostra redazione. «Volentieri! Ma dobbiamo fare in fretta, perché sto per traslocare: con i soldi della pensione non riesco più a permettermi l'affitto di 1'500 franchi. Dopo 18 anni in un appartamento bellissimo, lo devo lasciare: rispetto a prima ho 2'800 franchi in meno al mese. Chissà che io non debba abbandonare anche il mio paese per riuscire a far quadrare i conti! Sarebbe il colmo dopo una vita a lavorare!» ci risponde sconfortata. Maria, il caffè (amaro) è più che mai urgente: nel giorno dello sciopero stai confermando con la tua vicenda personale, perché le donne hanno dovuto organizzare una terza mobilitazione nazionale. Non è un paese per gli stranieri, non è un paese probabilmente neanche per i giovani, non è neppure un paese per le donne, la Svizzera. Resta un paese per gli uomini e per i ricchi.
Vogliamo capire come è possibile che una persona con un posto di lavoro di responsabilità e cinque lingue parlate, debba addirittura lasciare casa per far quadrare i conti a causa della nuova situazione economica data dalla (non) rendita pensionistica. «La situazione per molte di noi è drammatica: divorziate, madri sole, il fatto di avere avuto dei figli e di averli cresciuti, dovendo ridurre la percentuale di lavoro, ci penalizza. La maternità, la famiglia produce dei buchi, che a volte sono voragini, nella cassa pensioni e arriviamo a 64 anni con poco o niente. Ma è possibile che la politica non intervenga per mettere a posto questa situazione, che penalizza e condiziona la popolazione femminile? Il problema è che non a tutti e a tutte è ancora chiara la gravità della questione. La società è cambiata, ci sono più donne rispetto al passato al di fuori del matrimonio rispetto al passato, le quali dovranno fare i conti con un sistema inegualitario al momento della pensione. Una pensione che può far venire mal di pancia, creando nuove preoccupazioni». Già, lo sciopero si è fatto per la parità salariale, ma anche per le pensioni delle donne, quelle che «non sono preparate, mica sanno davvero che cosa le attende, pure se ogni inizio di anno arriva l’estratto conto della LLP. È talmente fuori da ogni buonsenso, dopo una vita di sacrifici, di lavoro visibile e invisibile, che una non se lo immagina davvro di vedersi riconosciuta una rendita così misera finché non ci sbatte la testa». E Maria ci ha sbattuto la testa, nonostante riceva l'Avs completa, il secondo pilastro, e il terzo, avendo stipulato un’assicurazione di previdenza privata («una piccola somma, perché non avevo possibilità di pagare di più»). Maria, ma come è possibile, ti conosciamo come una donna con una buona carriera professionale alle spalle, come è che devi lasciare casa? «Sono una donna, madre e divorziata e questo spiega la situazione. Ho lavorato nel telegrafo, mi sono sposata giovane, sono diventata mamma e ho diminuito l mio impegno professionale: all’inizio due pomeriggi al mese per non uscire dal mondo del lavoro e poi, man mano che la bambina cresceva, aumentavo la mia percentuale di lavoro (50 e poi 75%). Una disponibilità che non poteva mai essere totale per gli obblighi familliari». Già, basta questo per spiegare: essere donna e madre. «Per 27 anni, fino ad arrivare a ricoprire il ruolo al 90%, mi sono occupata della gestione del personale nel campo del petrolio. Per una società con sede a Lugano dovevo reclutare dipendenti in tutto il mondo: Stati Uniti, Filippine, Thailandia a dipendenza dei profili ricercati. Quando la scelta era definitiva, mi occupavo di ogni formalità: gestivo i biglietti, i visti, i permessi per la residenza, le paghe. Ero un punto di riferimento per il personale, soprattutto per quelle persone che stavano anche due anni senza tornare a casa: per me la domenica non esisteva, venivo sollecitata in qualunque momento della settimana e del giorno per via del fuso orario. Quando mia figlia è stata autonoma, sono passata al 90% con una buona paga di 7'200 franchi netti al mese». Maria si definisce “una formichina”, ha sempre risparmiato «anche quando i soldi erano pochi», interessandosi al futuro che sarebbe arrivato: «L’estratto conto della LLP me lo sono sempre letto bene e non mi facevo chissà quali illusioni, ma con 1'900 di secondo pilastro previsto e 2'400 di Avs si arrivava a un totale di 4'300 franchi. Mi dicevo “io che sono formica, riesco a starci dentro”, ma è andata peggio delle previsioni. Nel 2021 la rendita era scesa a 1'815 franchi ed era quello che mi aspettavo. Poi la batosta nel 2022: 1'519 franchi al mese per il tasso di conversione. Non hai nessun potere, speculano sull’immobiliare e poi ti dicono questo è il tasso di conversione. In totale arrivo a 3'800 franchi al mese: lascio un appartamentodi 1'500 franchi per andare in uno di 1'200 e avere più agio economico, ma è vergognoso». Maria, dopo che nel 2015 la ditta per cui lavorava cambia ragione sociale e vuole pagarla 2 mila franchi in meno {«un braccio di ferro che si è concluso con l’accordo di uno stipendio netto di 6 mila franchi al mese al posto di 7’200»), viene licenziata il 30 giugno 2022. Ha 63 anni e le mancano 9 mesi alla pensione: «Con il licenziamento ho perso 20 mila franchi: due settimane di penalità e il mancato versamento per nove mesi di previdenza sociale (1'025 franchi al mese). Inoltre, ho dovuto versare di tasca mia 10 mila franchi alla cassa pensione».
Oltre il danno, anche la beffa. Maria ci spiega che «se tu arrivi al giorno del 64esimo compleanno e non hai un datore di lavoro, sei obbligata a ritirare il capitale, e quindi niente rendita. Il mio capitale era di 360 mila franchi, se avessi dovuto ritirarlo, sicuramente oltre che a traslocare, sarei stata costretta anche a lasciare il mio paese per andare all’estero. Ho, dunque, versato di tasca mia i contributi dei nove mesi persi».
Maria è una formatrice per Amnesty International e nell’ultimo anno si è occupata di sensibilizzare i giovani sulla mancata parità salariale fra uomini e donne in Svizzera. «”Non è vero!” ho sentito dire convinti da studentesse e studenti del Liceo di Mendrisio e della Scuola di commercio di Bellinzona, evidentemente imbeccati dalle famiglie: il che fa capire quanto lavoro culturale sulla questione di genere ci sia ancora da fare». |