Contro il silenzio: incontro con l'associazione israeliana B'Tselem

La pace tra palestinesi e israeliani sembra un miraggio lontano e le due fazioni si combattono nuovamente — politicamente e sul terreno — ormai da quasi nove mesi. La situazione nei territori occupati (Cisgiordania e Gaza) è disperata e chi sta pagando le conseguenze e gli errori dei due governi sono i civili, soprattutto palestinesi. I gruppi pacifisti israeliani (Peace now, Gush shalom, Meretz) sono ad un’impasse. Molti non sanno più da che parte stare — forse un passo decisivo sarebbe necessario, forse bisognerebbe esporsi e fare delle concessioni "vere" e oneste — e altrettanti hanno rispolverato vecchie paure e non sanno più se dar fiducia, o meno, ai palestinesi. Quello che sconvolge è concentrato nell’affermazione dell’ex ministro degli esteri Shlomo Ben Ami: "Israele non è la parte più forte". Sentimento condiviso dal 69 per cento dei suoi concittadini, che temono per il futuro del proprio paese. La sinistra israeliana è allo sbaraglio e si compiange nella sua miseria. La sua autoflagellazione ha raggiunto un nuovo estremo, alcuni suoi membri hanno scelto proprio questo momento storico per dibattere il "peccato originale" del Sionismo. Addirittura le attività dell’organizzazione per i diritti umani B’Tselem (vedi intervista) non sono più apprezzati e sono visti come destabilizzanti per l’unità israeliana. Il Primo ministro Sharon si è rallegrato recentemente nel vedere alcuni dei suoi acerrimi nemici ritornare sui loro passi ed entrare a far parte del governo. Peace now e altri gruppi pacifisti stanno perdendo terreno e i coloni stanno guadagnando sempre più consensi. Alcuni membri della sinistra stanno sostenendo la domanda della destra di "eliminare il terrorismo" in modo da ottenere la "sicurezza" tanto agognata. Ma come e a che prezzo? Uno scenario abbastanza demoralizzante. Ma l’unità del popolo d’Israele non è mai stata così forte come in questi mesi di combattimenti. E la comunità internazionale non è capace di fare altro che balletti diplomatici. Faisal al-Husseini (membro dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina era incaricato delle questioni su Gerusalemme per l’Autorità palestinese) — deceduto un mese fa — in un suo ultimo intervento aveva ribadito chiaramente: "Se la comunità internazionale non interviene per difendere la popolazione palestinese, se le trattative non riprendono su una nuova base — non il ritorno a Camp David, ma il riconoscimento del diritto al ritorno dei profughi, alla fine dell’occupazione e degli insediamenti, il riconoscimento di Gerusalemme città aperta e capitale per due Stati — prevarranno le logiche della guerra". Ma ciò che affermava al-Husseini — così come i pacifisti israeliani di cui non si parla mai e che non sono Amos Oz o David Grossmann, ma Michael Warshawski, Ury Avnery, Lea Tzemel, Ruhama Marton e tanti altri — è che se la comunità internazionale davvero crede nei diritti, li deve far rispettare. B’Tselem ("The israeli information center for human rights in the occupied territories" — Centro israeliano d’informazione per i diritti dell’uomo nei Territori occupati) si occupa di monitorare la Cisgiordania e la striscia di Gaza in modo da registrare ogni episodio che viola i diritti dell’essere umano sanciti in campo internazionale e sottoscritti anche da Israele. Si tratta di un’organizzazione indipendente fondata nel 1989 da alcuni accademici, giuristi, avvocati, giornalisti e membri della Knesset (parlamento israeliano). Le ricerche e i rapporti, le campagne di sensibilizzazione, criticano la politica d’occupazione cercando di influenzare e di coinvolgere il più possibile la società israeliana. Contro "il silenzio" B’Tselem organizza pure discussioni, incontri sul conflitto israelo-palestinese in patria e all’estero. L’associazione è indipendente e non ha — come le associazioni pacifiste israeliane — nella sua agenda la Pace ma si occupa esclusivamente di problemi inerenti i diritti dell’essere umano. Nodo che secondo Lior Yavne — l’addetto stampa di B’Tselem — dovrebbe essere messo in primo piano. Il lavoro dell’associazione — specialmente in questi ultimi mesi — è aumentato a dismisura per i collaboratori (israeliani e palestinesi) di B’Tselem. Prima dello scoppio della seconda Intifada c’erano due, tre collaboratori nei territori occupati, oggi sono ben otto. Per saperne di più abbiamo pensato di porre qualche domanda proprio a Lior Yavne. I rapporti di B’Tselem sono molto importanti per i Territori occupati. Come reagiscono l’opinione pubblica israeliana, i membri della Knesset e le istituzioni internazionali? Per quanto riguarda la comunità internazionale, B’Tselem ha sempre avuto un’ottima reputazione, poiché la nostra documentazione è presentata in maniera accurata e attendibile. Per esempio l’unica Organizzazione non governativa (Ong) palestinese-israeliana che la commissione Mitchell ha incontrato durante la sua visita, era appunto B’Tselem. La società israeliana si sente attualmente sotto pressione (da parte dei palestinesi), anche se oggettivamente non è vero. Naturalmente la società non presta l’attenzione necessaria alle violazioni dei diritti dell’uomo, che noi auspichiamo. Quando la situazione è più calma il pubblico israeliano è più aperto. Credo che l’opinione pubblica in questo momento di crisi non sia molto aperta ai problemi riguardanti i diritti dell’uomo. Salvo eccezioni, come nel caso della restrizione di movimento imposto ai palestinesi malati o alle ambulanze, e in alcuni casi all’uso eccessivo della violenza da parte delle forze di sicurezza. Nella Knesset abbiamo dei membri che sono sensibili ai nostri rapporti, ma come ovunque il Parlamento non è un’arena così importante come i mass media. Attualmente prevalgono le reazioni negative o quelle positive (al vostro operato) rispetto a prima dello scoppio degli scontri e dell’Intifada? Continuiamo a ricevere e-mail negativi e minacce. Non è una novità: succedeva anche prima. Forse stiamo "rompendo le uova nel paniere" a un maggior numero di persone. Che cosa vi aspettate da Sharon e come pensa che la situazione nei Territori occupati possa cambiare? Da Sharon ci aspettiamo quello che ci aspettavamo da Barak, Netanyahu e dagli altri Premier israeliani. Se l’occupazione in Cisgiordania e nella striscia di Gaza dovesse essere, putroppo, ineluttabile, che sia perlomeno rispettosa dei principi dei diritti dell’uomo. Si constata che alle violazioni dei diritti dell’essere umano, non si presta abbastanza attenzione. Il nostro lavoro — che si è intensificato negli ultimi nove mesi — cerca di rendere maggiormente attenti sulle questioni dei diritti dell’uomo sia l’opinione pubblica, sia il governo e le forze di sicurezza israeliane (Idf, Israeli defence force). Dal Medio Oriente — come lei ben saprà — è difficile aspettarsi qualche cosa, abbiamo certo bisogno di più libertà di movimento per i nostri collaboratori che lavorano sul terreno. Collaboratori che, in questo periodo, violano la legge israeliana spostandosi da un posto all’altro per raccogliere informazioni. Come organizzazione che si occupa dei diritti dell’uomo, non abbiamo nessun diritto presso l’Idf e il governo. In molti casi i soldati impediscono ai nostri collaboratori di valicare i posti di blocco o addirittura li trattengono. Una maggior collaborazione da parte delle forze dell’ordine, sarebbe sicuramente ben vista. Fondamentalmente continuiamo a protestare, documentati, per il mancato rispetto dei diritti dell’uomo. In Europa e in Svizzera la gente che è critica nei confronti della politica di Israele è vista subito come anti-semita o addirittura razzista. Che cosa pensa in proposito? Che cosa potremmo fare noi dalla Svizzera? Che Israele tratti chiunque critichi lo Stato come anti-semita, è un fenomeno noto. Ma credo che per avere una possibilità di cambiamento serio in Israele occorre una pressione internazionale sul governo. La comunità internazionale ha una grande responsabilità, deve avere l’abilità di fare pressione su Israele in modo tale da fare innanzitutto rispettare i diritti dell’uomo. Penso che anche il singolo cittadino possa fare qualcosa: scrivere alle ambasciate israeliane, al proprio Parlamento, al Primo ministro per esercitare maggior pressione sul governo israeliano. La politica della chiusura dei territori si riflette su ogni palestinese che vive nei territori occupati. È definitivamente una punizione collettiva che non è solo in disaccordo con le leggi internazionali ma è anche proibita da quelle israeliane. La grande chance di cambiare qualcosa rimane la pressione internazionale, in questo senso ogni cittadino può collaborare ad un grande cambiamento.

Pubblicato il

06.07.2001 03:00
Fabrizio Poretti
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