La rielezione di Donald Trump segnerà il futuro del Medio Oriente. Se il presidente uscente Joe Biden non ha saputo imporre un cessate il fuoco che mettesse fine alla guerra e alla crisi umanitaria a Gaza e in Libano, Trump punterà tutto sull’alleanza con l’Arabia Saudita per chiudere la sanguinosa pagina del conflitto. Non solo, il leader repubblicano potrebbe esasperare la crisi tra Israele e Iran aggravando le tensioni in Medio Oriente. Inoltre, riportando in auge la politica di disimpegno militare degli Stati Uniti dalla regione, il populismo di Trump favorirà l’ascesa e il consolidamento di autocrati e dittatori in Nord Africa e Medio Oriente. La politica estera di disimpegno dal Medio Oriente, promossa da Donald Trump nella sua prima presidenza (2017-2021), potrebbe essere la chiave di lettura anche del suo secondo mandato. Questa strategia ha di fatto favorito il rafforzamento dell’influenza regionale iraniana, in particolare in Siria e in Iraq ma anche nello Yemen e in Afghanistan. E ha alimentato la logica della guerra per procura con l’attivazione e il consolidamento, da una parte, del ruolo delle milizie sciite nella regione, dall’altra, della presenza militare turca. Ankara ne ha approfittato per colpire i Curdi Tuttavia, negli ultimi anni, è mancata una politica estera USA lungimirante in questi paesi tanto che lo stesso Trump ha dovuto più volte smentire sé stesso in merito al ritiro da aree strategiche per evitare l’avanzata di altre forze impegnate a vario titolo nella regione. Primo fra tutti l’esercito turco che ha approfittato largamente dell’incertezza nella politica estera Usa in Medio Oriente per colpire ripetutamente le forze curde nel Nord della Siria, nonostante sia i curdi peshmerga in Iraq sia i curdi delle Unità di protezione maschile e femminile (YPG-YPJ) in Siria siano stati i principali artefici della sconfitta sul campo dei jihadisti dello Stato islamico (ISIS). La Turchia di Recep Tayyip Erdogan è impegnata in nuovi raid contro il partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) in Siria e in Iraq dopo l’attacco di Ankara al gruppo aerospaziale Tusas del 23 ottobre scorso che ha causato cinque vittime. D’altra parte, il leader nazionalista turco del partito Mhp, Devlet Bahceli, che ha più volte negato la legittimità della causa curda rivendicando la correttezza della rimozione dei sindaci della coalizione filo-curda Dem, come nel caso di Ahmet Turk a Mardin, ha invitato il leader in prigione del PKK, Abdullah Ocalan, a dichiarare in parlamento la dissoluzione del partito, considerato gruppo terroristico in Turchia, in cambio di una sua possibile liberazione. E così questa inconsistenza nella politica estera di Washington in Medio Oriente durante il primo mandato di Trump, ha quindi, da una parte, messo in crisi il tradizionale asse tra Turchia e Stati Uniti all’interno della NATO, dall’altra, ha favorito la spaccatura della Libia con il caotico conflitto che è ancora in corso. Sostegno ad autocrati e dittatori In altre parole, con le sue politiche discriminatorie verso i migranti e il Muslim Ban, il ritorno di Donald Trump alla presidenza USA significherà soprattutto un appoggio incondizionato ai regimi autoritari in Nord Africa e in Medio Oriente. Gli USA si mostreranno sempre meno interessati a essere coinvolti nei conflitti regionali e pronti ad accordi ad hoc per la soluzione delle crisi locali. A partire dal sostegno inequivocabile per la monarchia saudita. Nei prossimi anni gli USA eviteranno di evidenziare il mancato rispetto dei diritti umani in molti dei paesi della regione, come è già avvenuto in occasione dell’assassinio del giornalista saudita, Jamal Khashoggi (2018). In quella fase, Trump e l’allora Segretario di Stato, Mike Pompeo, hanno permesso che la catena di responsabilità che coinvolge le più alte cariche della monarchia saudita non emergesse. Non solo, per Trump il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha da sempre rappresentato il suo “dittatore preferito”. Quindi ancora una volta questo significherà favorire le politiche repressive promosse da militari e autocrati in Nord Africa in nome degli interessi geopolitici statunitensi. Come, d’altra parte, stava facendo lo stesso Biden che ha ripristinato, alla fine del suo mandato, gli aiuti militari USA al Cairo pari a 1,3 miliardi di dollari annui, in nome del ruolo negoziale egiziano nel conflitto in corso a Gaza. Netanyahu libero “di finire il suo lavoro” a Gaza Come se non bastasse, quando Trump è stato per la prima volta alla Casa Bianca si è dimostrato come il più forte alleato di Israele. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, lo ha definito il “miglior amico che Israele abbia mai avuto”. Il presidente Usa ha riconosciuto le rivendicazioni territoriali di Tel Aviv sulle Alture del Golan, annesse unilaterlamente nel 1967. Non solo, ha spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e ha favorito più di ogni altro gli accordi di Abramo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (2020) puntando sull’asse tra Washington e Arabia Saudita. In campagna elettorale, Trump ha assicurato che Netanyahu sarebbe stato libero “di finire il suo lavoro” a Gaza, mostrandosi quindi contrario ai tentativi di limitare i fronti di guerra aperti dall’esercito israeliano (IDF) dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023. In altre parole, per Trump la fine della guerra in Medio Oriente equivale con la “vittoria” di Israele e con un accordo tra israeliani e sauditi che archivi le rivendicazioni di uno stato palestinese. Dal canto loro, i politici democratici hanno pagato molto l’incapacità dimostrata di poter chiudere la guerra con un cessate il fuoco a Gaza e in Libano. E così anche Biden si è in realtà dimostrato incapace di imporre un freno ai raid israeliani, sebbene abbia agito con una qualche efficacia per contenere gli attacchi israeliani contro l’Iran dello scorso 26 ottobre, evitando di coinvolgere le centrali nucleari del paese, e impedendo per il momento un’ulteriore escalation del conflitto. E così, durante la campagna elettorale della candidata democratica, Kamala Harris, e fino alla vigilia del voto, non sono mancate le manifestazioni di dissenso degli attivisti pro-Palestina per la mancata condanna inequivocabile del genocidio in corso a Gaza e in Libano da parte di Washington. Eppure la candidata democratica aveva enfatizzato nei suoi discorsi la crisi umanitaria nella Striscia e aveva più volte fatto riferimento alla necessità di una tregua. Non solo, durante la visita di Netanyahu alla Casa Bianca dello scorso luglio, Harris aveva assicurato che gli Usa non sarebbero rimasti “in silenzio” sulla situazione a Gaza esprimendo preoccupazione per la morte dei civili. D’altra parte, la stessa candidata democratica, Hillary Clinton, nel 2016 era stata duramente criticata per il suo sostegno agli islamisti moderati in Egitto e Libia. In quell’occasione vennero resi noti i suoi scambi di email con l’ambasciatrice USA, Anne Patterson, per discreditarne le credenziali in politica estera. Il rischio di uno scontro diretto con Teheran Gli effetti più significativi della rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti potrebbero venire proprio dai rapporti bilaterali tra Washington e Teheran. In altre parole, con il suo secondo mandato il leader repubblicano potrebbe aprire la pagina molto rischiosa di uno scontro diretto tra USA e Iran. Al tempo della presidenza di Barack Obama l’accordo sul nucleare, siglato nel luglio 2015 a Vienna, aveva segnato un riavvicinamento senza precedenti tra i due paesi. Ma proprio Trump, a partire dal 2018, aveva rimesso tutto di nuovo in discussione, strappando quell’accordo, imponendo nuove sanzioni contro l’Iran, ordinando l’uccisione della figura chiave in quella fase nella gestione dei conflitti regionali, la guida delle milizie al-Quds, Qassem Soleimani, e ponendo il veto su qualsiasi scambio commerciale di paesi terzi che avessero voluto aggirare le nuove sanzioni USA contro l’Iran. Queste iniziative hanno messo in seria difficoltà l’economia iraniana e hanno rafforzato la componente radicale portando all’elezione dell’ex presidente, Ebrahim Raisi nel 2021. Dal canto suo, Biden, soprattutto nella prima fase della sua presidenza, ha provato a riportare Teheran al tavolo negoziale sul nucleare. Non ci è riuscito in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina a causa del sostegno dimostrato dall’Iran alla Russia di Vladimir Putin con la fornitura di droni Shahed usati da Mosca per colpire Kiev. Negli ultimi anni, l’asse tra Mosca e Teheran è andato rafforzandosi con accordi militari reciproci che hanno sicuramente ostacolato la fine delle sanzioni internazionali contro l’Iran mentre imponenti proteste anti-governative hanno attraversato le strade iraniane in nome del movimento “Donna, vita, libertà”. Alla vigilia del voto USA, la guida suprema iraniana, Ali Khamenei, aveva promesso una risposta “devastante” contro i raid israeliani dello scorso 26 ottobre, in seguito agli attacchi iraniani contro Tel Aviv dello scorso primo ottobre, motivati dall’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, a Beirut il 27 settembre. I pasdaran iraniani avevano promesso un raid “doloroso e definitivo” prima del voto negli USA. Non solo, alti esponenti delle Guardie rivoluzionarie avrebbero tentato di organizzare un piano per uccidere il leader repubblicano prima del voto, secondo quanto dichiarato dal dipartimento della Giustizia USA in seguito all’arresto di un cittadino afghano, Farhad Shakeri. In campagna elettorale, Trump è scampato a un tentativo di assassinarlo lo scorso luglio a Butler in Pennsylvania. Gli ayatollah sono stati più volte accusati di organizzare raid mirati in difesa degli interessi iraniani in Europa e nel mondo. La vittoria non del tutto inaspettata di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 5 novembre 2024 potrebbe aprire una nuova pagina per le guerre in Ucraina e in Medio Oriente. La questione dei conflitti in corso ha pesato non poco in campagna elettorale. Secondo i sondaggi, proprio il tema del conflitto in Medio Oriente è stato tra le priorità per gli elettori statunitensi. In particolare, la guerra a Gaza e in Libano ha influenzato il voto dell’elettorato arabo-americano favorendo la rielezione di Trump, soprattutto in stati in bilico come il Michigan. Né i Democratici né i Repubblicani hanno saputo affrontare il tema del conflitto israelo-palestinese in maniera convincente con Trump che ha manifestato un sostegno incondizionato a Israele pur promettendo la fine della guerra e Harris, in continuità con l’amministrazione Biden, che si è dimostrata incapace di negoziare un cessate il fuoco a Gaza. A questo punto, una volta insediatosi, Trump dovrà affrontare i nodi principali della politica estera di Washington in Medio Oriente. Questo potrebbe innescare una guerra su larga scala contro Teheran, da anni paventata dai politici repubblicani, e che potrebbe ulteriormente aggravare le tensioni nella regione. |