Come nelle gabbie: reportage dalla Cisgiordania

«Non vogliamo niente dall’Europa e nemmeno dagli Stati Uniti d’America, i loro rappresentanti dovrebbero provare solamente una volta a spostarsi da Dahryya (cittadina a sud della Cisgiordania) e Gianin (estremo nord della Cisgiordania). Questo permetterebbe di capire che viviamo in una prigione diretta dagli israeliani» (Ahmed incontrato su un taxi collettivo a Hebron / al-Khalil) La Cisgiordania, dopo l’ultimo accordo di Wye Plantation formalizzato nel 1998, è soggetta ad una divisione nella quale Israele mantiene il 70% del controllo militare e civile nelle cosiddette zone C, mentre la zona B, il 20,9%, è sotto controllo militare israeliano e amministrativo palestinese. Le zone A, isole completamente autonome sotto controllo totale dell’Autorità palestinese, rappresentano solo il 9,1%. La Cisgiordania, occupata solo dal 1967, è stata lentamente colonizzata da Israele (sul suo territorio sono sorti insediamenti israeliani derivati dalla confisca di numerosi terreni palestinesi). Le vie d’accesso a villaggi e città palestinesi si snodano lungo strade di aggiramento degli insediamenti ebraici dando luogo a una fitta ragnatela geografica. La parcellizzazione del territorio, dovuta alla sicurezza israeliana, ha determinato anche fenomeni di neocolonizzazione dei Territori occupati. Secondo l’organizzazione non governativa B’Tselem, dopo i trattati di Oslo, si sono insediati in Cisgiordania quasi 80 mila coloni e sono stati costruiti 11 mila nuovi alloggi. Ne consegue che la oggi nei Territori occupati si contano ormai quasi 300 mila coloni a fronte di 3.5 milioni di palestinesi. Con lo scoppio dell’Intifada le cose sono peggiorate ulteriormente: confisca di terreni, distruzione di campi/piante d’ulivo, libera circolazione proibita, punizioni e sanzioni collettive, nuovi posti di blocco, costruzione di nuove abitazioni per i coloni, distruzione di case palestinesi e così via. Ragioni di sicurezza: l’esercito divide i palestinesi Un viaggio in automobile tra Gerusalemme e il resto della Cisgiordania è in pratica impossibile. Il traffico tra i villaggi e le città di provincia è reso difficile da posti di blocco. Le entrate della maggior parte dei villaggi e cittadine palestinesi della zona A sono sigillate da solchi nella strada, blocchi di cemento e cumuli di terra, eretti in modo da non far passare nessun veicolo a motore (gli asini e i muli e in alcuni punti i trattori riescono a superare questi ostacoli). E’ vero che alcuni posti di blocco con l’inizio dell’anno nuovo sono stati smantellati, ma la maggior parte delle barricate e dei blocchi di cemento sono ancora ben visibili. La realtà sul terreno è ancora più complicata di quanto si possa immaginare. Chi non è un colono o un diplomatico deve sottoporsi ad un estenuante e sfiancante viaggio: vari cambi di taxi, strade non asfaltate e improvvisate, deviazioni di diversi chilometri per riuscire ad avvicinarsi al posto di blocco israeliano, camminate e arrampicate su colline o attraverso campi di ulivo spianati. Chi vuole intraprendere un viaggio anche breve (Hebron/ al-Khalil – Betlemme) non può sapere quanto impiegherà né se arriverà a destinazione. Il tragitto che nel 1999 durava 20, 30 minuti, senza cambio di veicolo, arrivava a Bab al-Zqaq in centro a Betlemme. Oggi per lo stesso percorso ci si impiega da una a tre ore, cambiando due volte il mezzo: i soldati decidono se lasciar passare o meno i Palestinesi a piedi, se bloccare i taxi, se fare ulteriori controlli di sicurezza per impedire l’uscita e l’entrata a Betlemme. Alcuni palestinesi hanno il permesso di attraversare questi varchi a piedi, altri vengono fermati dai soldati israeliani e rimandati indietro. Allora devono trovare un sentiero nascosto sulle colline per raggirare il posto di blocco. In periodi di alta tensione è in pratica proibito circolare o attraversare qualsiasi posto di blocco anche per chi possiede un permesso valido. Palestinesi carichi di bagagli, merce da portare al proprio villaggio o al mercato, attendono ai bordi delle strade controllate dall’esercito israeliano, con l’intento di attraversarle. Intanto si vedono sfrecciare le vetture dei militari e dei coloni. Si aspetta. Quando un soldato dà il segnale decine di persone si muovono da una parte all’altra di questa il più velocemente possibile, presto non si potrà già più varcare questo passaggio. Villaggi isolati da mesi Le vie e i nodi cruciali di passaggio da un’«isola» all’altra sono stati pianificati dal governo israeliano a partire dai trattati di Oslo. Alcuni arrivano a affermare che questo piano cerca di negare l ‘esistenza palestinese, frammentando e isolando il popolo sul loro proprio territorio. Organizzazioni umanitarie, come il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), hanno intensificato il loro aiuto soprattutto nei villaggi isolati da mesi e mesi di coprifuoco collettivo. Ai posti di blocco israeliani i delegati del CICR lottano giornalmente per passare o far passare ambulanze. Secondo dei dati palestinesi (B’Tselem sta cercando di chiarire alcuni di questi casi) sono morti 60 palestinesi, perché non sono riusciti a raggiungere l’ospedale in tempo, alcune donne in cinta hanno dovuto partorire ai posti di blocco israeliani. L’espansione di insediamenti strategici israeliani e la costruzione di strade ha diviso in due grandi blocchi la Cisgiordania e sta isolando sempre di più l’occupata Gerusalemme Est. Nella grande Gerusalemme israeliana, «la politica della giudeizzazione» ha portato migliaia di ebrei nelle colonie a ridosso di Gerusalemme, su territori confiscati ai villaggi palestinesi dal 1967. Molti di questi nuovi arrivati (russi, ucraini e presto argentini) si insediano, senza essere a conoscenza di quanto sta accadendo nelle nuovissime abitazioni, allettati dai prezzi stracciati e da numerose agevolazioni fiscali. Contemporaneamente il Ministero degli Interni israeliano ha intrapreso da alcuni anni a questa parte una campagna di ritiro del permesso di residenza ai palestinesi di Gerusalemme Est, facendo in modo di trasferirli dalla città alle zone B palestinesi fuori dai centri urbani (soprattutto Abu Dis). Intanto le demolizioni di case continuano in silenzio: durante questa nuova Intifada – secondo Amira Hass, una giornalista israeliana, B’Tselem e Gush Shalom - gli insediamenti e la distruzione di abitazioni sono aumentati in maniera esponenziale. Indignazione per la barbarie Ma forse questo lungo silenzio della società israeliana, grazie al lavoro di molte Ong israeliane e anche del quotidiano Haaretz, sta per terminare. «Cieca crudeltà» e «Siamo diventati barbari come Hamas» ha scritto il giornale in alcuni articoli apparsi sul numero dedicato alla vicenda delle distruzioni delle case nel campo profughi di Rafah (B’Tselem ha confermato la distruzione di ben 56 case distrutte in due giorni di metà gennaio). Certo che la semplice indignazione per le barbarie commesse dall’esercito non è più sufficiente: in 34 anni di occupazione israeliana, lo sbriciolamento dei Territori Occupati in zone A, B, C, cioè in 160 microcantoni ha prodotto la presenza di quasi 300 mila coloni ebraici, le umiliazioni ai check point, la disoccupazione galoppante, inesistenti futuri sbocchi economici. Insomma, gli *assassigni mirati dell’esercito israeliano non auspicano niente di buono per eventuali vie d’uscita dalla crisi.

Pubblicato il

18.01.2002 05:00
Fabrizio Poretti