Città del nostro tempo: betonaggi e abitazioni, macelli e conventi

Ha ragione il municipale di Gordola Bruno Storni quando nell’Informatore della Sinistra del suo comune “…rileva una marcata propensione della città a riversare sul Piano ogni genere di attività poco desiderabile (depuratore, discariche di rifiuti e di inerti, aeroporto, canile, crematorio, …”). E ha pure ragione il sindaco di Tenero-Contra Paolo Galiciotti quando si chiede “se la città (Locarno) abbia una visione che vada al di là dei confini e abbracci tutta l’area d’influenza che le è propria…”. In effetti il municipio di Locarno ha appena concesso al Gruppo Ferrari la licenza edilizia per costruire un impianto di betonaggio di 80 metri cubi all’ora proprio vicino al quartiere abitativo delle Gaggiole, sul confine di Gordola. Questa faccenda dell’espulsione disordinata dei contenuti indesiderati è una vecchia storia che quasi tutte le città borghesi europee praticarono a partire dall’ ’800. Tra i primi a dover andarsene furono i cimiteri, grazie ad una legge napoleonica che vietò di seppellire i morti dentro le chiese e nei sagrati, dove si diffondevano, soprattutto d’estate, tremendi fetori che il popolo sopportava solo grazie alla gran fede (o rassegnazione) che lo animava e alla confidenza con la morte che, si dice, tutti avessero a quei tempi. E fin lì fu una buona cosa. Ma poi seguirono depositi di rifiuti, carceri, manicomi, macelli, canili, gasometri, magazzini, dormitori per operai migranti e da ultimo, con il progresso tecnologico, inceneritori, depuratori, antenne e altri impianti sempre più grandi, performanti e sofisticati. A Ginevra, per esempio, durante tutto l’ ’800 fu la Jonction, la nebbiosa lingua di terra alla confluenza tra il Rodano e l’Arve, ad accogliere i non desiderata della città. Vi abitò persino Lenin, che per ruolo e per borsa non poteva certo aspirare a stare nella città alta. A Lugano la città moderna riversò i suoi incomodi su Cornaredo e soprattutto nel Piano della Stampa, oltre il ponte di Valle: montagne di rifiuti dove i giovanotti la sera cacciavano i ratti col flobert, rifiuti del Vismara presso il quale, per dieci centesimi, entrando in capannoni nauseabondi, si poteva riempire una scatoletta di cagnotti per la pesca. E poi le carceri, appunto, il canile, magazzini e mense di ogni sorta, i molinari, alloggiati provvisoriamente al Maglio dopo l’espulsione dai Molini di Viganello. Il tutto senza uno straccio di linea di trasporto pubblico per gente che di regola un’auto non ce l’ha. Questo fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Ma ora la situazione si è fatta ancora più difficile perché le città non hanno più un dentro e un fuori. Esse sono in certo qual modo dappertutto. Tutto è città e tutto è non città. Per cui ti troverai presto un impianto di betonaggio addosso ai quartieri d’abitazione di Gordola, un “termovalorizzatore” dei rifiuti alle porte di Giubiasco, un macello cantonale a Claro con ultimo sguardo, per i poveri animali prima del colpo mortale, in direzione del mitico convento di clausura. Insomma una situazione territoriale difficile e confusa, percepita in modo bruciante dai cittadini e dalle autorità più sensibili, che giustamente tentano un’estrema difesa. Rimedi? Difficile dare risposte immediate e convincenti. Una prima però c’è ed è già stata data da altri in altre occasioni: resistere, resistere, resistere. Cioè non subire queste cose come una fatalità. Ce n’è anche una seconda, a più lungo termine: profittare del tempo della resistenza per comprendere meglio i nuovi meccanismi territoriali ed abbozzare nuovi piani per comprensori più vasti delle antiche giurisdizioni comunali diventate quasi tutte obsolete. C’è dunque molto da fare, sul piano del pensiero e dell’azione, come si diceva una volta.

Pubblicato il

24.03.2006 13:00
Tita Carloni
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