Si concludono domani a Soletta le Giornate del cinema svizzero. Che ormai da molti anni tentano invano di capire se il nostro cinema potrà tornare ai fasti degli anni ‘70. Uno di quelli che il cinema svizzero in quel periodo ha contribuito a farlo grande è il direttore della fotografia ticinese Renato Berta, che è oggi uno dei professionisti più ricercati sulla scena internazionale. La lista dei film di cui ha curato l'immagine e lo spessore dei registi per i quali ha collaborato sono impressionanti. Nato a Bellinzona nel 1945, di formazione meccanico, Berta, dopo aver studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, è entrato nel mestiere alla fine degli anni '60, facendosi notare con “Charles mort ou vif” di Alain Tanner, Pardo d'oro a Locarno '68. Dopo aver contribuito in maniera decisiva al “miracolo del cinema svizzero” degli anni '70 (lavorò oltre che con Tanner anche con Claude Goretta, Michel Soutter, Daniel Schmid e Villi Hermann) finì con lo stabilirsi nei primi anni '80 a Parigi. Da allora Berta ha collaborato regolarmente con Louis Malle (“Au revoir les enfants”), Alain Resnais (“On connaît la chanson”) e tutti i maggiori registi del cinema francese, da Claude Chabrol a Jean-Luc Godard. Negli anni '90 la sua fama lo ha portato a lavorare assiduamente con l'israeliano Amos Gitai, di cui ha curato la fotografia di quasi tutti i film, e con il portoghese Manoel De Oliveira. Ora è impegnato con Robert Guédiguian su un film su François Mitterrand, “Mon père est ingénieur”. Nell'incontro che segue, avvenuto al festival Castellinaria di Bellinzona lo scorso novembre, Berta evoca gli snodi centrali della sua carriera e spiega come interpreta il mestiere di direttore della fotografia. Renato Berta, lei è solito ricordare che senza il Festival di Locarno difficilmente avrebbe fatto del cinema. Che debito ha nei confronti della rassegna locarnese? È enorme. Quando andavo al cinema da ragazzo, in Ticino, questo mi sembrava un mondo lontanissimo, impossibile da raggiungere. A Locarno ho invece potuto incontrare delle persone reali che facevano dei film: il mio mondo dei sogni s’era materializzato. Per me fu soprattutto importante l’incontro locarnese con Glauber Rocha. Fu lui a consigliarmi di studiare al Centro Sperimentale di Roma. E così feci. Nel mio anno eravamo soprattutto orgogliosi di aver fatto un’occupazione dietro l’altra… E al Centro Sperimentale, frequentato dal ’65 al ’67, conobbe Pier Paolo Pasolini… Durante un’occupazione con lui facemmo un’analisi alla moviola di “The Man Who Shot Liberty Valance” di John Ford. Pasolini fu un personaggio fondamentale, perché aveva la capacità di interrogare e interrogarsi su cose molto diverse, in ambiti spesso lontanissimi, pur non fornendo risposte molto pragmatiche. In campo cinematografico i suoi lavori più interessanti rimangono i cortometraggi, come “La ricotta” o “La terra vista dalla luna”. Ma stare accanto a lui fu più una lezione di vita che di cinema. Perché poi non lavorò mai in Italia? Perché è troppo difficile. I produttori italiani sono dei banditi: ci vuole troppa scaltrezza per non farsi fregare da loro, a me le ambiguità non piacciono. Mario Martone mi ha proposto recentemente di girare il suo nuovo film, “L’odore del sangue”, ma ero già impegnato. Finita la scuola lei è dunque tornato in Svizzera. Possiamo dire che il cinema svizzero degli anni ’70 è stato Renato Berta a farlo grande? Fu una serie di coincidenze a portarmi sulla strada del cinema svizzero. Negli anni ’70 un giornalista di “Le Monde” intitolò una mia intervista «Renato Berta le numéro deux du cinéma suisse». Il numero uno erano i registi… Ma “Charles mort ou vif” o “La salamandre” di Alain Tanner, che ancora oggi impressionano per l’immagine, non sarebbero stati la stessa cosa con un altro direttore della fotografia. Siamo agli inizi della mia carriera. “Charles mort ou vif” fu il mio secondo lungometraggio dopo “Vive la mort” di Francis Reusser. All’epoca, quando abbiamo fatto “Charles mort ou vif”, nessuno ci credeva, per noi era una cosina da niente: fu un film costato pochissimo, girato fra mille difficoltà, completamente gestito dal regista com’era consuetudine fra gli autori ginevrini del “Groupe 5”. Oggi a posteriori possiamo dire che quello fu l’inizio di un gran bel periodo, ma all’epoca non avvertivamo assolutamente nulla in tal senso. Guardando i film dell’epoca si avverte una forte tensione etica in chi li ha girati. Sente ancora quel tipo di impegno nei film che vengono fatti oggi? Posso solo parlare per me. Io abbordo i miei lavori come se fosse sempre il mio primo film. Nella collaborazione con un regista la cosa più importante è sforzarsi di capire cosa lui cerca, non cosa lui vuole. I registi che sanno esattamente cosa vogliono non esistono. Nel cinema c’è una forte componente di “improvvisazione”, ci si deve sempre adattare alle circostanze che quel giorno trovi sul set: se devi girare una scena con il protagonista felice ma l’attore quel giorno è incavolato, non puoi tenere le stesse luci che hai previsto a tavolino. Se sai “improvvisare” però è proprio da questi momenti che spesso ottieni le inquadrature con l’impatto più forte. Un esempio è “Kippour” di Amos Gitai, un regista per il quale la sceneggiatura è solo un progetto: la scena del medico che tenta di salvare il collega nel fango è del tutto improvvisata, non c’era nemmeno nella sceneggiatura, ed è probabilmente la più intensa del film. Per Gitai la realtà più importante, la più incisiva, è quella che sta filmando. Un approccio simile ce l’ha Alain Resnais, nei cui film intervengo molto: ha detto che se potesse firmerebbe i suoi film “Alain Resnais et Renato Berta”. Appunto, bisogna sapere cosa si vuol fare del progetto contenuto nella sceneggiatura, per questo si deve capire cosa il regista cerca. Anche perché oggi le sceneggiature sono scritte in maniera letteraria, e hanno poco a che fare con il cinema. Che rapporto ha invece con il novantacinquenne Manoel De Oliveira, un regista decisamente più classico? Il suo produttore Paulo Branco subito dopo “Charles mort ou vif” mi disse che avrei dovuto lavorare con De Oliveira. Per molto tempo non ci siamo riusciti. Fin quando ho fatto la fotografia per “Party”, nel ’96. De Oliveira all’inizio era molto diffidente, ma poco a poco sono entrato nel suo universo senza impormi. Credo infatti che per un operatore sia importante non marcare troppo il film, ma trovare un interesse, uno spazio nel quale può intervenire grazie alle sue competenze per far avanzare il progetto. Su questa base con De Oliveira l’intesa è sempre stata perfetta. Il suo rigore formale non mi disturba, mi piace lavorare per lui come per un Gitai che richiede tutt’altro tipo di immagine: la qualità di un operatore non la si riconosce dai virtuosismi tecnici che sa fare, ma dalla capacità di cogliere al meglio quanto regista e attori stanno per darti sul set. Lei ha fatto un solo film con Jean-Luic Godard, “Sauve qui peut (la vie)”. Come mai? Perché è un personaggio impossibile. Fare un film con lui presuppone una professione di fede: si entra nel suo convento, si recita un ruolo voluto da lui… È difficile sopportarlo a lungo. Questo non toglie che sia un grande cineasta e che lavorando con lui abbia imparato moltissimo sull’idea di cinema, sul modo di affrontare quest’arte. Se ha una divergenza d’opinioni con il regista, quando rinuncia alla sua idea e segue l’opinione del regista? Per me è un problema che non esiste. Un operatore deve essere estremamente attento a non imporsi: se si impone facendo appello alla fotografia e solo a quella, in sostanza per ragioni estetiche o tecniche, vuol dire che sul set ci sono grossi problemi. Un direttore della fotografia i suoi rapporti col regista li deve chiarire prima delle riprese: deve sapere che film sta per fare e deve sapere che tipo di lavoro vuol fare. Perché non è la stessa cosa illuminare il volto di Catherine Deneuve o un mucchio di cadaveri in Bosnia. Certo, ci sono degli operatori come Vincenzo Storaro, che è bravissimo, che questa differenza non la fanno: per loro fare la fotografia è quasi un atto mistico, non è più cinema. Lei ci va al cinema ogni tanto? Negli ultimi tempi no. Da un lato perché i proiezionisti non hanno più una cultura del loro mestiere e non curano più la proiezione: uno fa un lavoro enorme sull’immagine e questa nelle sale è rovinata da un numero sempre crescente di incompetenti. D’altro lato, se capita di dover curare la stampa di un film, lo si vede talmente tante volte che alla fine si ha davvero voglia di fare altro: lo scorso autunno “Pas sur la bouche” di Alain Resnais l’avrò visto almeno sessanta volte… Rimpiange le tecniche del passato quando lavora in digitale? No. Bisogna sapersi confrontare con le novità, anche se finora ho girato un solo film in digitale. Del resto la qualità dell’immagine non è fine a sé stessa. Quel che conta è sapere cosa si fa, cosa si ha voglia di raccontare, i supporti sono secondari. E quindi non è mettendo della pellicola in una macchina da presa che si fa del cinema: il cinema è qualcosa che va al di là, è superiore. Com’è cambiato Renato Berta nell’approccio alla professione? Mettere delle luci per me non è più un avvenimento, è un fatto normale. Ho acquisito un certo distacco. D’altro lato ho però sviluppato anche la capacità di farmi sorprendere da quanto accade durante le riprese e di cogliere al meglio quanto in sceneggiatura non è previsto.

Pubblicato il 

23.01.04

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