Cincali, ti ricordi?

Debutta questa sera nel quartiere di Cinecittà a Roma, nell’ambito del Festival “Bella Ciao” diretto da Ascanio Celestini, il nuovo spettacolo di narrazione di Mario Perrotta dedicato all’emigrazione italiana in Svizzera. Intitolato “La turnata”, esso è già stato proposto tre settimane fa al Festival di Arzo in forma di studio, ma ad uno stadio di maturazione comunque assai prossimo allo spettacolo finito. “La turnata”, che sarà in Svizzera alla fine di ottobre (a Zurigo, Jona e San Gallo), è la seconda parte di un progetto teatrale sull’emigrazione italiana (“Italiani Cincali”) di cui già si è visto con notevole successo “Minatori in Belgio”. In questa intervista Perrotta spiega il suo lavoro. Mario Perrotta, c’è una grande produzione cinematografica, teatrale e letteraria sull’emigrazione italiana oltre Oceano. Lei si è invece interessato di quella verso il belgio e la Svizzera. Perché? Ho puntato l’attenzione sull’emigrazione nel nord Europa perché è poco nota. L’emigrazione verso il Belgio, la Francia, la Svizzera o la Germania è rimossa dalla coscienza collettiva italiana perché è considerata un’emigrazione di scarto. Infatti chi partiva verso questi paesi prima o poi tornava a casa e anche durante l’anno faceva una qualche capatina al paese d’origine per cui non colpiva l’immaginario collettivo, a differenza di chi, come lo zio d’America, andava in un altro continente per sempre. Il progetto originario era di ritornare: ci si sarebbe massacrati qualche anno in miniera per poi costruirsi la casa al proprio paese. E tutto questo, malgrado il dolore e le sofferenze, non era considerato molto eroico. Da che bisogno personale è partito lei nella sua ricerca? Proprio dalla mia esigenza di riavvicinarmi alla mia terra che avevo dovuto lasciare 14 anni prima per imparare e esercitare il mestiere di attore. Certo io sono un emigrante meridionale di lusso che ha potuto scegliere di partire: proprio per questo mi sono detto che il modo migliore fosse quello di dare la parola a chi la mia terra l’aveva dovuta lasciare per forza. Cominciando a fare interviste con chi il fenomeno l’aveva vissuto in prima persona mi sono reso conto che esso era molto vasto. A questo punto ho deciso di dividere in due il progetto. L’altro motivo che mi ha spinto a fare questo lavoro è che a casa mia si è cominciato a dare la colpa agli albanesi per tutto ciò che non funziona: ci si è inventato un sud con cui prendersela. Mi ha impressionato che dopo secoli passati da migrante la gente della mia terra abbia improvvisamente dimenticato tutto: credo davvero che ci sia un bisogno urgente di raccontare chi siamo stati. È rimasto stupito dal successo della prima parte del suo lavoro, “Minatori in Belgio”, che ha fatto più di 150 repliche in un anno ed è stato finalista al Premio Ubu come miglior testo italiano? Mi ha stupito soprattutto la risposta dei meccanismi teatrali, che non mi aspettavo accogliessero così positivamente lo spettacolo: in Italia se si ha qualcosa di nuovo e interessante da dire è infatti molto difficile ottenere visibilità. Poi una volta che si riesce a farsi notare c’è il rischio di diventare un fenomeno, che la cosa ti sfugga di mano: oggi si fanno indebiti paragoni fra me, Marco Paolini, Ascanio Celestini, Laura Curino e gli altri grandi del teatro di narrazione. Non è invece del tutto vero che il pubblico, la gente non abbia voglia di sentire queste storie. Le si vogliono sentire a teatro, come zona franca, anche se poi le si dimentica appena se ne esce. Io comunque sapevo di aver fatto un buon lavoro con Nicola Bonazzi, e d’altra parte le storie che mi erano state raccontate erano così forti che era difficile sbagliare: bastava raccontarle. In questo senso il successo presso il pubblico non mi ha stupito. Per questo spettacolo la narrazione le si è imposta da subito come la forma di spettacolo più adatta? Non credo esista la narrazione in quanto contenitore, ma in quanto modo di fare teatro. Il problema è: come raccontare 50 mila minatori che ogni anno vanno in Belgio a lavorare, in un’epopea durata 20 anni? Mettendone 50 mila in scena? Scegliendone alcuni per rappresentarli tutti? Forse il modo più semplice e diretto è raccontarli. La scelta delle tecniche della narrazione è quindi conseguenza di ciò che si vuole dire. Non credo però nel contenitore che identifica necessariamente un certo tipo di teatro. Laura Curino mi ha detto che la narrazione è quando invece di dire io dici lui: che è molto più semplice e chiaro. Ma è solo uno dei modi per fare teatro. Però c’è una ragione più intima che mi ha spinto verso la forma narrativa, ed è che quella storia mi appartiene più che a qualsiasi altro attore che si sceglie facendogli un provino o perché appartiene alla compagnia, ma che questo percorso non l’ha seguito fin dall’inizio. Perché per raccontare l’epopea dell’emigrazione ha scelto di farlo attraverso due personaggi che non ne sono stati protagonisti diretti, un postino e un bambino? Perché il teatro per essere teatro ha bisogno di una visione particolare che agganci lo spettatore emotivamente e non dal punto di vista razionale. Il postino, proprio perché le storie che racconta non le ha vissute ma le riferisce, consente poi delle digressioni poetiche e degli stravolgimenti molto interessanti, salvo poi fermarlo e fornire al pubblico dei dati concreti perché ci si possa agganciare. Così il bambino, che le storie che racconta più che vissute le ha subite e non le poteva comprendere, e ce le racconta oggi, quarantacinquenne, filtrate attraverso ciò che sentiva dire in casa. Rispetto al racconto che può fare direttamente un minatore, la trasfigurazione che ne possono fare il postino o il bambino hanno una forza teatrale straordinaria. Certo sono punti di vista faziosi e parziali, ma non era mio compito essere imparziale e oggettivo: non sono uno storico. Mi interessa di più l’emozione che può darmi quel bambino oggi adulto che ti dice che oggi ancora fa fatica a rimanere in casa da solo perché gli viene l’ansia: immaginarlo rinchiuso in una stanzetta per cinque anni come un topo in gabbia con i genitori in fabbrica a lavorare mi dà un’emozione devastante che ha la forza necessaria perché io poi la possa restituire in teatro. Il primo spettacolo è stato portato sia in Belgio che a Zurigo, di fronte ad un pubblico oggi ancora di migranti. Che reazioni ha riscontrato? Prima dello spettacolo tutti mi dicevano che il Belgio piuttosto che la Svizzera avevano dato loro tanto, che non si potevano lamentare. Poi durante lo spettacolo sono crollati, la difesa che si sono creati per resistere negli anni di emigrazione è svanita. In effetti è vero che in Belgio o in Svizzera hanno trovato quel lavoro e alcuni quel benessere che in Italia non c’erano, ma a quale prezzo? Alla fine le lacrime e gli applausi erano di rabbia, e non di emozione, commozione o empatia con la storia. Come se dicessero che finalmente qualcuno se n’era accorto. In “Italiani Cincali” paragona l’emigrazione in Belgio ai campi di concentramento nazisti, quella in Svizzera alla schiavitù. C’è dell’esagerazione o sono paragoni calzanti? Chi nel ‘46 andava in Belgio veniva messo in treni blindati, scortato dalla polizia con il mitra, in 52 ore di viaggio senza poter scendere, costretto a fare i bisogni in piedi, in mezzo a tutti. Arrivato sul posto di lavoro scopriva che l’appartamento promesso sul contratto era un campo di concentramento che era appena stato liberato, con un bagno ogni mille persone e le lenzuola lavate una volta ogni tre mesi. Quanto alla Svizzera la condizione in cui doveva vivere lo stagionale era devastante anche dal punto di vista psicologico, perché viveva in un ricatto continuo: se non righi dritto come ti diciamo noi ti ritiriamo il permesso, quel permesso di cui doveva vivere tutta la famiglia. Vivere nella precarietà perché non sai se l’anno prossimo avrai di nuovo il lavoro, costretto a fare i lavori più pesanti senza alcuna protezione perché se ti lamenti torni a casa, per me è schiavitù. Ma è la stessa cosa che succede oggi in Italia con gli immigrati extracomunitari. Teatro d'impegno civile Il progetto “Italiani Cincali”, voluto e realizzato a partire dal 2002 dal giovane Mario Perrotta per il Teatro dell’argine di Bologna con la complicità di Nicola Bonazzi, è diviso in due parti. La prima, sull’emigrazione in Belgio, è raccontata dal punto di vista del postino, uno dei pochi uomini rimasti al paese del meridione da cui erano partiti molti minatori per cercare di fare fortuna ma in realtà scambiati dal giovane governo italiano con quello di Bruxelles per qualche chilo di carbone. Al centro della narrazione, oltre alla solitudine di chi è rimasto, incombe sempre la tragedia di Marcinelle, che nel 1956 costò la vita a 262 minatori, 136 dei quali italiani. La seconda parte, “La turnata” racconta invece del viaggio di ritorno dalla Svizzera all’Italia di una famiglia meridionale di stagionali nel 1969. Il punto di vista in questo caso è del ragazzino che per cinque anni ha dovuto vivere segregato in casa in quanto non aveva il diritto di seguire in Svizzera i suoi genitori: se fosse stato scoperto, questi avrebbero perso il posto di lavoro. In entrambi gli spettacoli il narratore Perrotta interrompe il racconto per precisare fatti e cifre del fenomeno migratorio. Con uno stile asciutto, Perrotta sa veicolare emozioni ed indignazione: forse per le caratteristiche dei personaggi, il racconto del postino è più struggente di quello del bambino, che spesso sconfina nel comico-grottesco. Ma entrambi sono notevoli esempi di teatro d’impegno civile, ottimamente scritto e ben recitato.

Pubblicato il

16.09.2005 04:00
Gianfranco Helbling