Canta «Bella Ciao» in apertura della puntata di Sciuscià e si ritrova con uno striscione pieno di insulti sotto la casa in cui abita. L’esibizione di Michele Santoro non è piaciuta al movimento neofascista Forza Nuova che ha espresso a modo suo, con l’uso della minaccia, ciò che altri avrebbero contestato scrivendo magari al direttore della Rai: «non abbiamo gradito». Il canto partigiano è proscritto dalla nuovo ideologia imperante. Il conduttore televisivo? Proscritto anche lui. Sergio Cofferati, invitato nell’ultima trasmissione? Proscrittissimo. Non bastano allora gli anatemi bulgari del presidente del Consiglio. Il branco si scaglia in gruppo contro la libertà di informare tacciando la televisione pubblica di «faziosità» e braccando gli ultimi alfieri dell’informazione libera e pluralista, Santoro, Biagi e Luttazzi, colpevoli d’aver invitato nei propri programmi «chi non la pensa come il primo ministro». Seguendo una strategia ormai chiara, i fanti di Berlusconi, leghisti e neofascisti, partono per primi all’attacco sferrando colpi bassi, creando diversione. Poi seguirà la cavalleria con il nobile Cavaliere che si occuperà di rimettere tutto a posto e riparare gli errori dei soldati. Intanto lo sguardo dell’opinione pubblica viene distolto dal nodo della questione che «non è la sopravvivenza della trasmissione “Sciuscià”, o de “Il Fatto” di Enzo Biagi», dichiara Michele Santoro, «ma ben altro».
Tenera alta l’attenzione, mai abbassare la guardia, resistere, resistere, resistere, facendo, semplicemente, il proprio dovere, «per la…, per la…, libertà», canta il conduttore, rintonando «Bella Ciao». Ad essere in pericolo è la televisione, come veicolo di diffusione dell’informazione e, come tale, conquista e progresso della società. Gli italiani, gli europei, non sembrano aver capito che quando un primo ministro è anche proprietario di tutto l’etere televisivo, oltre che di un impero della comunicazione, la sua parola diventa vangelo. Berlusconi potrà permettersi per esempio di affermare che tra i suoi deputati non c’è nessun pregiudicato. Chi dirà il contrario sarà trattato da complottardo e comunista, cioè da fautore di menzogne. Chi farà da contraltare?
L’avviso di licenziamento partito dalla Bulgaria è dunque il primo atto compiuto nell’era del «regime televisivo», un fenomeno che Michele Santoro accetta di analizzare per «area» invitando ad andare oltre lo scontro con il presidente del Consiglio.
Con il suo programma, «Sciuscià», lei svolge un’informazione e un’opinione libere e indipendenti, forme di espressione che si scontrano con l’occupazione berlusconiana, accentratrice e dirigista, della Rai. Tutta l’informazione televisiva, tranne il suo programma, «Il Fatto» di Enzo Biagi, e in parte Rai Tre, si farà in futuro portavoce del padrone, oppure lo è già. Se si lascia fare al primo ministro, trasmissioni come la sua non se ne vedranno più…
Direi che la sopravvivenza de «Il Fatto» e di «Sciuscià» sono questioni secondarie. Il problema è che oggi si attenua qualunque possibile concorrenza, sia esterna alla Rai che interna. Ciò non danneggia soltanto i giornalisti ma tutto il mondo della cultura. Per esempio il mondo del cinema, in Italia per lo più di sinistra, deve per forza operare o con Mediaset o con Rai. Chi ne garantirà la libertà?
Il controllo della Rai avrà dunque come conseguenza l’azzeramento della concorrenza. Cosa succederà adesso? Le reti Mediaset vampirizzeranno i canali Rai prendendogli i diritti delle trasmissioni che fanno audience? Insomma quale sarà il bottino dopo la razzia?
Mediaset oggi è praticamente gestita da un management dalla debolissima identità, in cui spiccano il figlio del premier e il suo ex segretario particolare (Fedele Confalonieri, ndr). Mediaset è un’azienda scarsamente interessante sul piano della produzione televisiva impiantata su format d’acquisto. Il suo valore più importante sono gli altissimi profitti che riesce a produrre grazie al monopolio della pubblicità. Il fatto è che le entrate pubblicitarie sono in una fase di recessione. Il controllo della Rai permetterà di ridurre la concorrenza, di ridurre i soldi destinati ai programmi e di calmierare i compensi delle star. Insomma di mettere in salvo i profitti.
Su «Repubblica» Lei ha affermato : vedo «segnali di regime». Carlo Rossella, direttore di «Panorama», giornalista chiaramente asservito al potere, ha dichiarato a «Porta a porta» (la trasmissione di Bruno Vespa) che il primo ministro non ha mai detto che l’Occidente fosse superiore all’Islam, mentre la registrazione del famoso discorso di Silvio Berlusconi veniva visionata in tutto il mondo. Buona parte del giornalismo italiano è già «sotto regime». L’altra parte seguirà?
Carlo Rossella è un fan del presidente del Consiglio e, contemporaneamente, un suo dipendente… Per il resto cosa vuole che dica?
Enzo Biagi ha dichiarato a «Repubblica»: «ognuno faccia la sua parte». Va bene continuare ognuno a fare la sua parte, ma non crede che oggi la risposta al regime debba venire in primo luogo dai giornalisti, contro i falsi giornalisti come Carlo Rossella?
La prima risposta in questa situazione è appunto fare la propria parte.
L’avvento del «regime televisivo» è stato possibile a causa della mancata legge sul conflitto di interessi e alla privatizzazione della Rai, cui è in buona parte responsabile il governo dell’Ulivo. L’«occupazione della Rai» sembra indolore, non suscita reazioni forti o prove di forza come potrebbe essere uno sciopero dei giornalisti.Perché?
Non è vero che non ci siano reazioni. C’è tanta gente disposta a battersi in difesa della legalità e del pluralismo. La politica è in ritardo, la stessa politica che ha rinunciato alla privatizzazione della Rai e al conflitto di interessi.
Comunque la lotta tra i partiti e i potentati economici, che vogliono imporre le loro logiche, e i giornalisti, che si battono per la libertà d’espressione, è eterna. E ancora viva.
Vista dall’estero, la lottizzazione politica della televisione pubblica sembra dissolvere però qualsiasi presupposto di libertà dell’informazione. Si ha l’idea che le decisioni vengano prese da direttori di rete che si avvicendano a ogni cambio di guardia politica. Quanto spazio ha lasciato in passato la «manu partitica» che ha occupato la cabina di regia e quanto ne lascerà in futuro?
La televisione pubblica ha avuto in Italia una storia più ricca di quanto racconti il termine lottizzazione. La nascita di Rai Due e del Tg2, per esempio, hanno rappresentato una prima rottura di un modello paternalistico e pedagogico dominato dalla cultura cattolica. Anche allora le nomine più importanti venivano decise dalla politica ma contenevano un’idea di concorrenza fra visioni diverse della realtà e tra diversi modi di far televisione.
Ancora più significative sono state le esperienze di Rai Tre e del Tg3 che, oltre ad arricchire le opzioni interne alla Rai, rappresentavano una risposta alla sfida lanciata dalla televisione di Berlusconi.
Solo che adesso Rai e Mediaset non costituiscono più un duopolio…
Siamo di fronte a un sistema che presenta una chiara anomalia: la televisione, e con essa l’informazione televisiva – che dovrebbe essere libera da ogni condizionamento – sono legate a doppio filo a interessi di parte, economici e soprattutto politici.
Questo si deve al fatto che in Italia c’è poco mercato, praticamente non esistono editori puri. La sinistra al potere avrebbe dovuto liberalizzare il sistema. Separare politica e tv. Non lo ha fatto. Pensare che lo faccia adesso Berlusconi è pura follia. Il presidente del Consiglio punta al controllo totale dei media televisivi.
E l’Europa sta a guardare…
Il caso italiano, l’intreccio perverso tra media e politica, è stato scarsamente indagato a livello europeo. Ci potrebbe essere in futuro un serio tentativo del presidente del Consiglio italiano di condizionare attraverso i media le vicende europee, a partire dalla Germania. Sarebbe ora che scattasse un allarme.
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