Ci dice: "continuate a crederci"

L’idea di cambiare il mondo che Gino Strada ha coltivato per una vita, non può morire. Con Vauro ricordiamo la figura del fondatore di Emergency

Caro Vauro, Gino ci ha lasciato soli a guardare la fine ignominiosa della guerra dell’Occidente all’Afghanistan: il fondatore di Emergency se n’è andato due giorni prima della presa di Kabul da parte di quei talebani che vent’anni fa, pomposamente, gli esportatori di democrazia avevano dichiarato sconfitti. Quando le ceneri di Gino Strada sono state portate a Milano dalla Normandia per consentire a migliaia di orfani del maestro di pace di rendergli l’ultimo saluto, americani e alleati fuggivano disordinatamente dall’aeroporto di Kabul con i collaboratori afghani inutilmente aggrappati agli aerei che decollavano insicuri dall’inferno. Due giorni di vita in più non avrebbero modificato di una virgola le convinzioni di Gino che già mesi prima aveva spiegato come la maggior parte del territorio afghano fosse già in mano talebana, con Kabul, più che assediata, infiltrata da chi l’ennesima guerra sul campo aveva già vinto.


Con chi, se non con Vauro, potevamo tentare di disegnare un ritratto di un amico comune? Vauro era più che amico e compagno di Gino, con lui ha collaborato a lungo condividendo momenti drammatici e altri bellissimi negli ospedali non solo afghani di Emergency, lacrime sangue e non raramente gioco, scherzi, leggerezza. Dopo una lunga conversazione, l’ultima domanda è quella che non avrei voluto fargli: cosa ti lascia Gino? Tace il telefono, da Antiparos dov’è in ferie Vauro tarda a rispondere e lo fa solo dopo aver soffocato il pianto: «Gino mi lascia un vuoto profondo, un dolore immenso. Eravamo molto legati, abbiamo riso e litigato, condiviso il brutto della guerra e il bello del gioco infantile. A me, ma anche a chi non ha avuto un rapporto diretto con lui mancherà un riferimento importante. Purtroppo, non riesco a vedere altre personalità capaci di coniugare cultura e azione. Spero di sbagliarmi, ma temo l’affermarsi di una drammatica solitudine sociale». Ricordo un’assemblea del manifesto nel 2004, io alla presidenza, accanto a me Gino, Vauro in prima fila e il presidente dell’Arci Tom Benetollo al microfono. Prima dell’inizio ci eravamo riuniti separatamente con Gino e Tom, il segretario Fiom Claudio Sabattini se n’era andato un anno prima e a rimpiazzarlo c’era Gianni Rinaldini. Avevamo discusso del che fare, di partito del lavoro e dei diritti che o sono per tutti o “chiamateli privilegi”. Poi, durante il suo intervento anche Tom se n’è andato colpito da un aneurisma. Hai ragione Vauro, Gino lascia un vuoto grande come l’avevano lasciato Claudio e Tom.


«Io mi sono legato all’Emergency di Gino certo per l’impegno concreto nella cura dei feriti e mutilati dalle bombe e dalle mine antiuomo (targate Italia, Valsella), ma anche per la denuncia della guerra e dei signori della guerra, gli esportatori di democrazia. Ricordo il social forum di Firenze del 2002, voluto da Gino insieme alla Cgil e ai movimenti, uno dei momenti più alti dell’agire collettivo contro la guerra e le diseguaglianze, mente da fuori arrivava l’eco gracchiante di Oriana Fallaci che sproloquiava sui rischi dell’invasione della città con tanto di pisciate arabe sui nobili monumenti fiorentini». Oggi c’è chi rivendica, anche nel Pd la giustezza della scelta di guerra in Afghanistan e come gli americani balbetta che però l’obiettivo di battere il terrorismo l’abbiamo realizzato. Ma c’è anche chi – a babbo morto – parla di guerra inutile (più del 90% del parlamento italiano votò a favore della guerra). «Guerra inutile? Mi offende. Semmai guerra tragica con centinaia di migliaia di morti, feriti, orfani e vedove. Ora piangono non per le vite spezzate ma per i soldi sprecati con quella guerra maledetta». In 40 anni di guerre sono morti 1,5 milioni di afghani, su una popolazione di 30 milioni. Dal ’99, Emergency ne ha curati 7,5 milioni, un afghano su quattro è passato attraverso gli ospedali e i primi centri di cura di Gino Strada.
Gino, uomo di sinistra che non ha risparmiato critiche e denunce alla sinistra politica. «Gino aveva una formazione limpidamente di sinistra, fin dalle lotte studentesche del ’68. Per lui essere di sinistra voleva dire no alla guerra – ‘non sono pacifista, sono contro la guerra’ – e alle diseguaglianze. Rivendicava il valore assoluto dell’utopia che oggi suona come una bestemmia, e si inventano parole come buonismo per insultare gli utopisti. L’utopia è il motore della storia e dello sviluppo umano, è l’idea che si può cambiare il mondo. È questo che oggi manca, al massimo si pensa a piccoli cabotaggi, aggiustamenti. Si discute sulla qualità e l’origine della calce del muro alzato in faccia ai palestinesi, non di cosa rappresenti quel muro». Era il ’99 quando ti presentasti alla riunione di redazione del manifesto con Gino, un incontro che seminò curiosità, rispetto, passione. Ma non andò così nel suo rapporto con la sinistra politica. «Ti faccio un esempio così ci risparmiamo troppe chiacchiere. Ero a Lashkar-Gah durante l’operazione della Nato chiamata Achille, perché ci tengono a dare un nome alle proprie guerre, solo gli uomini le donne e i bambini ammazzati restano anonimi. Era il 2007, un fuoco da paura, le inservienti non facevano più in tempo a pulire le corsie e i bagni dal sangue delle vittime che arrivavano altre vittime, altro sangue. Con Gino decidemmo di chiamare il presidente della Camera Fausto Bertinotti che io conoscevo, per dirgli: non rifinanziate la missione di guerra, qui siamo sommersi dal sangue delle vittime. Sai cosa mi rispose? ‘Caro Vauro, devi capire che in Afghanistan si sta facendo l’Europa’. Ma qui, caro Fausto, siamo in Asia minore, risposi e misi giù la cornetta». Il ’99 era l’anno delle bombe intelligenti e della guerra umanitaria in Jugoslavia. «Da quel momento tutte le guerre furono dichiarate umanitarie. Anzi possiamo dire dal crollo dell’Urss, quando terminato l’equilibrio del terrore tra le due superpotenze fu sdoganata la guerra come continuazione, o meglio sostituto della politica. Di questo parlavamo con Gino. Non voglio dire che l’Urss fosse pacifista, sono mica fesso, ne è testimonianza quel che ha fatto in 10 anni di occupazione dell’Afghanistan dove pure la condizione delle donne era decisamente migliorata. Mi rimane però in testa l’immagine del comandante in capo dell’esercito sovietico in ritirata, fu l’ultimo a passare a piedi il ponte sul fiume che separa l’Afghanistan dal Tagikistan. Un po’ diversa dalla fuga americana e dell’Occidente cui stiamo assistendo oggi».


I ricordi si accavallano, rabbia e dolore si impastano. Rabbia, dice, «per l’ipocrisia di chi lo loda dopo morto, ne ricorda le parole ma rimuove i contenuti del suo messaggio». Già, il messaggio. Torno a chiederti, cosa ci lascia Gino? «Ci dice ‘continuate a crederci’, nella possibilità di cambiare il mondo. È una fantastica utopia. Anche se ci sarebbero tutti gli elementi per la disillusione continuate a crederci, perché il confine tra disillusione e cinismo è troppo labile».


Ciao Gino, che fortuna averti incontrato.

Pubblicato il

26.08.2021 11:00
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