Chiusura alle 20? Ginevra non ci sta

È sempre più evidente che nel settore della vendita non c'è bisogno di un'estensione degli orari di apertura dei negozi, bensì di una migliore tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.

L'ennesima conferma giunge da Ginevra, dove domenica scorsa i cittadini di questo cantone di frontiera (oltre ad essersi con pochi altri distinti agli occhi dell'opinione pubblica internazionale per aver detto no all'iniziativa razzista dell'Udc sull'espulsione degli "stranieri criminali") hanno seccamente bocciato, con il 56 per cento di no, un'ulteriore tentativo di deregolamentazione nel settore del commercio al dettaglio. Salgono così a nove le vittorie del fronte sindacale nelle ultime dieci votazioni popolari su questo tema tenutesi dal 2006 a oggi a livello cantonale e comunale.
La revisione di legge ginevrina, che prevedeva il prolungamento dell'apertura serale dei negozi di un'ora (dalle 19 alle 20 nei giorni feriali e dalle 18 alle 19 il sabato), è stata massicciamente rifiutata soprattutto nei quartieri popolari della città di Ginevra, con percentuali oscillanti tra il 60 e il 67 per cento. E il no è prevalso anche in una quindicina di uffici elettorali tradizionalmente borghesi, con punte del 59 per cento. La liberalizzazione è passata soltanto in una ventina di comuni attorno al lago dove risiede la gente più facoltosa e nella metà dei casi con percentuali modeste.
I promotori del referendum (sindacati, partiti e associazioni di sinistra) si gustano la vittoria e già stanno pensando come capitalizzare questo risultato nell'ambito delle imminenti trattative per il rinnovo del Contratto collettivo di lavoro per il commercio al dettaglio (uno dei pochi esistenti in Svizzera) che giungerà a scadenza nel giugno 2011.
Il risultato della votazione di domenica va infatti interpretato come un atto di solidarietà con le venditrici e i venditori e come un riconoscimento del loro diritto ad una migliore protezione. I cittadini, che peraltro (a Ginevra come altrove) non avvertono la necessità di estendere ulteriormente gli orari di apertura dei negozi, hanno anche lanciato un segnale contro la banalizzazione del lavoro serale e domenicale, che in questo paese sta diventando sempre di più la regola.
E non solo nel settore della vendita: basti pensare che negli ultimi dieci anni il numero di persone costrette a lavorare regolarmente la sera è cresciuto del 26 per cento e che oggi in Svizzera vi sono ben 206 mila salariati che lavorano di notte (+ 23 per cento rispetto al 2000) e 415 mila la domenica (+ 11 per cento). Solo nel 2008 le lavoratrici e i lavoratori di questo paese hanno dovuto effettuare 188 milioni di ore supplementari, equivalenti a 98 mila impieghi a tempo pieno.
Il settore del commercio al dettaglio è sicuramente uno dei più colpiti da queste tendenze e i risultati delle votazioni tenutesi in vari Cantoni e Comuni della Svizzera negli ultimi anni mostrano come la popolazione non gradisca simili derive.
Non è un caso che l'opposizione all'estensione degli orari di apertura dei commerci sia in costante crescita: tra il 1996 e il 2000 le leggi che andavano in questa direzione sono state bocciate nel 60 per cento dei casi, una percentuale salita al 66 per cento tra il 2001 e il 2005 e all'88 per cento tra il 2006 e il 2010. Dal 1996 a oggi i fautori della liberalizzazione hanno così perso, a livello cantonale e comunale, 24 votazioni su 34. Addirittura 9 su dieci se si considerano solo gli ultimi quattro anni.
Nonostante questa chiara tendenza, vi sono dei cantoni come il Ticino che proseguono sulla strada della deregolamentazione (a colpi di deroghe alla legge in vigore e proposte di modifica della stessa, come quella attualmente in discussione [vedi articolo sotto]). Ma ci sono anche governi che forse hanno preso atto che gli interessi della grande distribuzione non coincidono con quelli della società nel suo complesso. Significativa è in questo senso la decisione presa proprio questa settimana dal Consiglio di Stato di Basilea Città, che ha respinto una mozione parlamentare per la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi. Un'ipotesi peraltro già bocciata dal popolo basilese per ben tre volte.

Il Governo ticinese è fuori strada

È un progetto fortemente penalizzante per il personale della vendita, funzionale solo agli interessi della grande distribuzione e poco aderente alla situazione economica e sociale del cantone.

Con queste argomentazioni il fronte sindacale ticinese respinge compatto al mittente il disegno di legge sugli orari di apertura dei negozi presentato lo scorso ottobre dal Dipartimento cantonale delle finanze e dell'economia (Dfe), da cui ora si aspetta un passo indietro. Anche alla luce dell'ennesima bocciatura in votazione popolare (domenica scorsa a Ginevra) di un tentativo di deregolamentazione in questo ambito.
Con una presa di posizione congiunta (a testimonianza di un'unità sindacale mai conosciuta in precedenza in questo settore) Unia, Ocst, Sit e Sic hanno comunicato nei giorni scorsi al Dfe nel quadro della procedura di consultazione le ragioni del loro giudizio fortemente critico nei confronti del progetto governativo. Un progetto che porterebbe ad un'«ulteriore involuzione delle condizioni di impiego» del personale e che se dovesse giungere in porto verrebbe sicuramente combattuto con il referendum.
Una chiusura generalizzata dei negozi alle 19 nei giorni feriali, oltre che non essere attrattiva dal punto di vista commerciale (come già oggi dimostra lo scarso ricorso a questa opportunità nelle cosiddette località di frontiera), comporterebbe «tutta una serie di problematiche supplementari per il personale», a partire dalla custodia dei figli e dalla mancanza di mezzi pubblici di trasporto per rientrare al domicilio la sera dopo il lavoro. Lo stesso dicasi per l'estensione di un'ora, fino alle 18, dell'orario di apertura il sabato: «Un peggioramento rispetto alla situazione attuale» che oltretutto «va in controtendenza rispetto a quanto avviene nella maggioranza dei Cantoni svizzeri» che prevedono chiusure anticipate dei commerci. Un ulteriore e «forte pregiudizio alla vita sociale e familiare del personale impiegato» verrebbe inoltre creato dall'introduzione nella legge del principio di quattro domeniche lavorative all'anno e di due aperture festive generalizzate.
Inammissibile per i sindacati è pure la regolamentazione estremamente permissiva per gli shop annessi alle stazioni di benzina, che peraltro si scontra con la giurisprudenza del Tribunale federale, che solo pochi mesi fa in una sentenza ha ribadito che il lavoro notturno e domenicale deve rimanere un'eccezione di cui questi negozietti non hanno il diritto di beneficiare.
«Spiace inoltre notare – scrivono ancora le quattro organizzazioni sindacali – come alla commissione paritetica del ramo della vendita venga attribuito un ruolo consultivo in un momento nel quale in un cantone di frontiera come il Ticino» il ruolo di un simile organo «andrebbe rafforzato per contrastare le importanti conseguenze negative della deregolamentazione del mercato del lavoro e della messa in concorrenza dei salariati». E «non convince neppure l'impianto sanzionatorio della legge», inadeguato per far fronte alle «moltissime infrazioni delle norme legali» che si registrano nel settore.
Quella partorita dal Dipartimento di Laura Sadis è insomma per i sindacati una proposta «funzionale agli interessi della grande distribuzione» e dannosa per il piccolo commercio. Essa «non tiene conto delle esigenze e delle richieste formulate in questi anni dal personale e dalle organizzazioni sindacali di categoria» e «non recepisce neppure la sensibilità e il comune sentire della popolazione ticinese, che sin qui si è sempre schierata contro ogni ulteriore deregolamentazione del quadro normativo», concludono le organizzazioni sindacali.  

Pubblicato il

03.12.2010 02:00
Claudio Carrer