“Per la prima volta, c'è un vero senso di libertà”, così a Damasco hanno accolto la notizia della fine dell'era del presidente Bashar al-Assad. Festeggiamenti e fuochi d'artificio sono andati avanti tutta la notte di sabato intorno alla moschea degli Omayyadi nel centro della capitale siriana per celebrare questo momento storico per il paese. Dal 30 movembre scorso, i ribelli islamisti, insieme ai fuoriusciti dell'Esercito siriano libero (FSA), sostenuti dalla Turchia, del movimento Tahrir al-Sham (Hts) dopo aver conquistato Aleppo, Hama e Homs sono entrati a Damasco. Si sono chiusi così 54 anni di potere della famiglia al-Assad, prima del padre Hafez e poi di Bashar, a guida del paese dal 2000. L’ex presidente, che ha lasciato il paese, ha guidato la Siria con la stessa brutalità e gli stessi metodi repressivi del padre, soprattutto dopo lo scoppio delle proteste anti-regime del 2011, in parallelo con l'avvio delle manifestazioni delle così dette Primavere arabe. La guerra civile siriana ha causato mezzo milione di morti e 6,6 milioni di rifugiati. La guerra civile non finisce qui Le immagini simboliche dell'abbattimento delle statue di Bashar e Hafez al-Assad a Homs e Damasco potrebbero far pensare che la guerra civile siriana finisca qui. In realtà si continua a combattere e la fine dell'era degli al-Assad aprirà una lunga fase di transizione che potrebbe essere altrettanto sanguinosa, come è avvenuto in Iraq dopo la fine del regime di Saddam Hussein nel 2003. Dopo Damasco, gli insorti sono entrati a Deir Ezzor a Sud di Raqqa. Secondo la coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti, stanno andando avanti i raid di Fsa anche sulla linea del fronte di Manbij contro le Forze siriane democratiche (Sdf), a maggioranza curda. Il paese che più potrà avvantaggiarsi dalla sconfitta dell'ex presidente siriano, è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Alla vigilia dell'avanzata dei ribelli, il presidente turco aveva fatto sapere di aver cercato più volte di coinvolgere al-Assad per trovare un accordo con le forze di opposizione ma di non aver ottenuto alcuna risposta. Ankara non ha mai tollerato la presenza dei combattenti curdi, con radici nel partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), guidato da Abdullah Ocalan, lungo il confine meridionale turco e ha fatto di tutto per mettere a rischio il loro progetto di autonomia democratica. E così, se il primo banco di prova per i ribelli sarà il rispetto dei diritti delle minoranze, il punto più incerto riguarderà proprio i rapporti con i curdi che continuano a controllare il Rojava, da Kobane a Qamishli. Non è chiaro come dialogheranno un governo di Damasco, con ogni probabilità targato Hts, e le Unità di protezione maschili e famminili (Ypg/Ypj). «Stiamo vivendo un momento storico, la fine del regime autoritario di al-Assad», ha commentato il comandante di Sdf, Mazloum Abdi, definendola «un'opportunità per costruire una nuova Siria basata sulla giustizia e la democrazia». Anche in Rojava sono state abbattute le statue degli al-Assad. Eppure non è detto che le forze curde avranno con Hts la stessa libertà di azione che aveva assicurato loro l'ex presidente siriano. Non solo, nelle città conquistate da Hts sono stati liberati migliaia di detenuti. In particolare dalla famigerata prigione di Saydnaya dove migliaia di prigionieri politici hanno subìto negli ultimi anni torture ed esecuzioni. Mentre migliaia di militari dell'esercito siriano regolare, indeboliti da anni di guerra civile, hanno abbandonato le uniformi. Almeno 2mila tra loro hanno superato il confine e si sono rifugiati in Iraq, come ha confermato il sindaco della città di frontiera di al-Qaim, Turki al-Mahlawi. Il rischio è che in Siria nelle prossime settimane regni il caos che del resto è stata una delle caratteristiche salienti del paese dopo anni di guerra civile. I ribelli siriani dopo essere entrati nella capitale hanno mandato in onda alla televisione pubblica un messaggio in cui hanno annunciato la liberazione del paese. Il leader di Hts, Mohammed al-Jolani aveva intimato ai militari pro-Assad di non avvicinarsi alle “istituzioni pubbliche”. Al-Jolani si dipinge come un leader nazionalista ma non è ancora chiaro quale sarà il posto dell'islamismo politico nella fase di transizione e quale spazio avrà l'ala militare del gruppo. Il leader di Hts, che ha preso parte all'insurrezione in Iraq contro gli Stati Uniti tra le fila dello Stato islamico (ISIS), aveva preso le distanze dai gruppi jihadisti in cui i ribelli sono radicati, come Jabhat al-Nusra e al-Qaeda. Non una priorità per Mosca A permettere il successo degli insorti c'è stato prima di tutto il ritiro dei miliziani del movimento sciita libanese Hezbollah, decimati dagli attacchi israeliani prima dell'accordo per il cessate il fuoco dello scorso 27 novembre con Tel Aviv. Il gruppo ha ritirato i suoi soldati da alcune aree di frontiera, in particolare da Qusair, al confine con il Libano. È evidente poi che la Russia di Vladimir Putin ha deciso che la Siria non è una priorità di politica estera. Però non è detto che Mosca voglia abbandonare il controllo che ha su Latakia e sul porto di Tartus, la porta russa sul Mediterraneo orientale. Lo stesso vale per la base russa di Hmeimim, dove fino a questo momento arrivavano i rifornimenti di armamenti da Mosca a Damasco. La fine di al-Assad è sicuramente una grande sconfitta per l'Iran, la cui ambasciata a Damasco è stata assalita dai ribelli. Ali Larijani, consigliere della guida suprema Ali Khamenei, è stato l'ultimo a incontrare al-Assad, prima che lasciasse il paese. L'asse tra Teheran e Damasco è stato un punto centrale della politica estera iraniana, estremamente indebolita dopo l'uccisione della guida delle milizie al-Quds, Qassem Soleimani, nel 2020 a Baghdad, e della guida di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il 27 settembre scorso. L'8 dicembre 2024 sarà ricordato come una data storica che ha chiuso la pagina della dittatura siriana degli al-Assad. Il futuro è pieno di incognite rispetto al ruolo che alcune componenti jihadiste tra i ribelli avranno in Siria. Eppure dopo 13 anni di guerra civile, la fine del regime sanguinario a Damasco rappresenta per tanti rivoluzionari e le centinaia di migliaia di morti la conclusione di una pagina nera che potrebbe aprire a nuove opportunità per l'intero Medio Oriente, ridimensionando drasticamente il ruolo iraniano nella regione e accrescendo il controllo politico turco nell'area. |