Chiamiamoli femminicidi

La sociologa Graziella Priulla: «Finché non hanno un nome, le cose e i fenomeni sono invisibili. Essenziale invece creare consapevolezza per agire»

Il 2021 non è ancora terminato e abbiamo già quasi raddoppiato il numero di femminicidi dello scorso anno in Svizzera: 25 contro 16 quelli compiuti, nove i tentativi (lo scorso anno i tentativi sono stati 5), di cui l’ultimo proprio in Ticino poche settimane fa. Lo stesso giorno una donna è stata uccisa dal marito nel Canton Ginevra. Il 18 ottobre una ragazzina di 12 anni è stata ammazzata dal padre nel Canton San Gallo, due giorni prima una donna è stata freddata in auto da un conoscente nel Canton Glarona e il 13 dello stesso mese una donna era morta per mano del marito a Zurigo. A questa triste lista si aggiungono due tentativi di femminicidio, uno è quello avvenuto in Ticino e l’altro nel Canton Soletta il 2 ottobre.
Non si tratta semplicemente di omicidi, ma di femminicidi e l’uso di questo termine è importante. Ne abbiamo discusso con Graziella Priulla, professoressa di sociologia della comunicazione all’università di Catania.

Professoressa Priulla, perché è importante usare il termine femminicidio invece che omicidio e in cosa i due termini differiscono tra loro?
La parola femminicidio esiste e circola nella lingua italiana a partire dal 2001; è ufficializzata nel Devoto-Oli 2009 e nello Zingarelli 2010, oltre che nel vocabolario Treccani online. Scrive l’Accademia della Crusca: “È genericamente omicidio qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto. È uxoricidio il provocare la morte della propria moglie, è infanticidio provocare la morte di un bambino. È femminicidio provocare la morte di una donna da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo
qualsiasi, conseguentemente al mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima”.
Inventare nuove parole serve: finché non hanno un nome, le cose e i fenomeni sono invisibili. Dare un nome a un problema è essenziale sia per far sorgere consapevolezza della sua esistenza, sia per agire. Iniziare a chiamare gli omicidi misogini con il termine femminicidio serve a rimuovere la generalizzazione che deriva dall’uso di parole quali “omicidio” e “uccisione” e a comprendere i fattori di rischio specifici, la loro diffusione, le modalità per effettuare le indagini. Non si tratta solo di un termine in più, ma di un’evoluzione – culturale prima, giuridica poi.
Femminicidio non è banalmente ‘uccisione di donna’. Un rapinatore uccide una donna? Omicidio. Un uomo stalkera e poi uccide la sua ex perché non accetta che lei possa avere una vita propria? Femminicidio. Un pirata della strada investe una donna? Omicidio. Un ragazzo accoltella una ragazza perché questa ha rifiutato le sue avances? Femminicidio. Sembra semplice, ma suscita ancora forti resistenze da parte di chi non capisce (mancanza di approfondimento) o non vuol capire (maschilismo).

In che modo i media quando riferiscono di casi di femminicidio contribuiscono a rafforzare o indebolire la cultura patriarcale alla radice dei femminicidi stessi?
L’impegno quotidiano di chi affronta il femminicidio continua a scontrarsi con un muro di gomma fatto di stereotipi, di luoghi comuni, di pregiudizi. Vengono taciute le radici della violenza e la percezione della strutturalità di questo fenomeno sociale: ogni episodio viene presentato come isolato, lasciando intendere che colui che ha agito l’abbia fatto per qualche motivo da ricercare all’interno della coppia.
Ancor oggi vengono riproposti copioni impropri quali il troppo amore, l’ossessione, la gelosia: un contorno ideologico che si riproduce nella narrazione delle storie di violenza compiute all’interno della coppia, e che nella sostanza – sia pur involontariamente – adotta il punto di vista del carnefice, additando una causa esterna, più forte di lui, ritenuta plausibile a scatenare la dinamica dell’assassinio. Quando il movente viene identificato nel delitto passionale si asseconda la tendenza tossica a confondere l’amore con il tormento rabbioso, con la ferita narcisistica, con il terrore della solitudine.
I media spesso presentano poi gli autori di femminicidio come vittime di raptus e follia, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che questi delitti vengano commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa.
In troppi casi si compiange l’assassino, disegnando il profilo di un poveraccio con tanti problemi, profondamente angosciato, forse afflitto da una brutta malattia. La ricostruzione è talmente patetizzante che alla fine della lettura quasi ci si dimentica che a morire è lei.
Si evocano circostanze avverse, negative per la stabilità psicologica: depressione, delusione, disoccupazione, povertà, infelicità... Parenti, amici, conoscenti: un coro di elogi. Al femminicida vengono attribuite quasi sempre buone qualità (ciò non accade se è straniero): “buon padre”, “bravo ragazzo”, “cittadino modello”, “onesto lavoratore”, “uomo mite e gentile”, “senza grilli per la testa”.
In molti articoli si sottintende nella struttura narrativa, o si esplicita direttamente, che a scatenare la “follia”, a provocare la reazione distruttiva del compagno sia stato un comportamento “sbagliato” della donna.
Definire conflittualità di coppia l’agire violento del partner maschile, o ricercare nella vittima, nel suo comportamento e/o nella sua psicologia, le cause della violenza, dà luogo a un processo che è stato definito di vittimizzazione secondaria, che consiste nel cercare la causa della violenza in tratti di personalità, in particolari comportamenti delle donne o in caratteristiche morali di queste ultime.

Perché parlare di femminicidio non sminuisce il fatto che vi siano anche uomini vittime di violenza?
Ci sono giornali che si sono spesi reclamando l’inserimento, nel vocabolario, della parola maschicidio come contraltare a femminicidio: ci sono libri sull’argomento. Ne è un esempio “Il maschicidio silenzioso”, scritto da Barbara Benedettelli, candidata alla Camera con Fratelli d’Italia nel 2013 e attualmente presidente dell’associazione L’Italia Vera. Lo scopo è negare la specificità del fenomeno, annegarlo nel mare magnum dell’aggressività umana. Se si continua a pensare che parlare di femminicidio sia un pretesto per odiare il genere maschile, si provocano solo danni.
Gli uomini non vengono uccisi perché vittime di un sistema socioculturale che per secoli li ha soggiogati annientando la loro identità e la loro libertà; questo non significa negare che anch’essi possano essere vittime di violenza, come accade ma in misura assai diversa.
I più recenti dati dell’Istat e quelli del Viminale dicono che in Italia vengono uccisi più uomini che donne (1,3 contro 0,5 su 100.000), ma la violenza nelle relazioni sentimentali miete molte più vittime fra le donne che fra gli uomini: il 46,3% contro il 2,2%. Focalizzando l’attenzione sui condannati per violenze in ambito familiare si nota il maggior peso della componente maschile, che è pari quasi alla totalità (98,3%) contro l’1,7% delle donne, e della componente italiana (l’84,8% è di provenienza italiana mentre il 15,2% è straniero).

Pubblicato il

03.11.2021 09:45
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