Chiamale se vuoi speculazioni

Dietro all’impennata dei prezzi delle materie prime agricole si celano fenomeni finanziari che impongono un ripensamento dell’intero sistema

Ucraina e Russia producono circa il 30% del grano mondiale. Con la guerra, le catene d’approvvigionamento sono bloccate e ora si teme che i raccolti ucraini del 2022 siano in buona parte compromessi e che quelli russi siano soggetti a restrizioni. Le conseguenze si sono già fatte sentire con una forte impennata dei prezzi. In Svizzera e nell’Unione europea c’è chi chiede di aumentare le produzioni per far fronte a eventuali penurie. Da temere, però, sono soprattutto le speculazioni e un modello agricolo sempre più intensivo e dipendente dai combustibili fossili.

 

«La nostra dipendenza dalla Russia e dall’Ucraina è infima, ma è chiaro che quello che sta succedendo a livello internazionale ha già impatti anche in Svizzera: l’aumento dei costi dell’energia e dei fertilizzanti si ripercuoterà con molta probabilità sul prezzo del grano nazionale in occasione del prossimo raccolto. Il prezzo delle farine invece, dopo l’aumento registrato a fine 2021 a causa del pessimo raccolto nazionale e internazionale, per ora è ancora stabile. La materia prima necessaria per le produzioni dei prossimi mesi, infatti, è già quasi tutta presente sul suolo nazionale e acquistata con dei contratti già in essere da diversi mesi». Alessandro Fontana è il titolare del Mulino di Maroggia, il più grande del Ticino anche se attualmente le macine sono ferme a causa di un incendio che ha distrutto gran parte della struttura a fine 2020. Di fronte a noi il cantiere della ricostruzione dei silos e degli impianti avanza a pieno regime e il mulino dovrebbe tornare operativo fra circa un anno.

 

Oggi l’azienda continua a vendere le proprie farine macinate altrove. Siamo qui per toccare con mano in che modo l’impennata delle materie prime agricole scaturita dalla guerra in Ucraina impatti su una realtà locale come questa. «La Svizzera in generale e noi in particolare restiamo una realtà piccola di fronte ai volumi scambiati a livello internazionale. Anche perché per quanto riguarda il grano tenero (quello destinato a produrre il pane) la produzione indigena copre di norma circa l’80% del fabbisogno» ci dice Fontana. A pesare e a sovrapporsi con le dinamiche di prezzo generate dal conflitto è soprattutto il fatto che, complice il maltempo, il raccolto 2021 è diminuito di circa il 25% tanto che il Consiglio federale ha deciso qualche giorno fa di aumentare il contingente doganale dei cereali panificabili: «Per questo – conclude Fontana – dobbiamo fare acquisti all’estero dove, anche se non ci riforniamo direttamente dai Paesi in conflitto, subiremo anche noi l’aumento dei prezzi generato sì da una maggiore domanda, ma forse anche da una certa spinta speculativa».

 

La pressione sui contadini


Anche il mondo contadino elvetico è toccato indirettamente dalla guerra: «La situazione sui mercati internazionali dell’approvvigionamento era già tesa prima dell’inizio del conflitto ucraino. I prezzi dell’energia e delle materie prime come i fertilizzanti e i mangimi sono già aumentati significativamente nel 2021. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha ulteriormente aggravato la situazione e anche la Svizzera è ora colpita dall’aumento dei prezzi» ci spiega Samuel Eckstein, portavoce di Fenaco, la più importante cooperativa agricola elvetica.

 

Per Fenaco «la situazione dell’approvvigionamento di prodotti agricoli in Svizzera è attualmente buona, nonostante la situazione tesa sui mercati internazionali». La cooperativa ha effettuato negli anni vari investimenti nell’infrastruttura logistica e nello stoccaggio, ciò che a suo dire ha frenato significativamente l’aumento dei prezzi. «Tuttavia – spiega Samuel Eckstein – la situazione sta diventando sempre più difficile e la pressione sui costi di produzione delle famiglie di agricoltori sta crescendo». Fenaco è attiva anche nell’acquisto all’estero di cereali per coprire quanto non è possibile coltivare nella Confederazione. Anche la cooperativa accenna alla speculazione: «L’eccezionale aumento sui mercati internazionali non è dovuto solo a ragioni agronomiche. L’aumento dei costi dell’energia e le strozzature logistiche sono anche fattori di aumento dei prezzi. Inoltre, anche il comportamento speculativo di vari attori del mercato gioca un ruolo».

 

La borsa di Bologna


Guerra e speculazione vanno spesso a braccetto. Soprattutto in un contesto come quello attuale dove l’agricoltura è sempre più espressione della finanza. «All’inizio della guerra abbiamo registrato un aumento di valore di circa il 30% sulle principali materie prime agricole, dal grano tenero al mais. Entrambi sono passati in una settimana da 300 a 400 euro la tonnellata. Ora vi è stata una leggera discesa, ma i prezzi rimangono alti e volubili». A spiegarci al telefono questo andamento è Valerio Filetti, un broker di prodotti agricoli e presidente dell’Associazione granaria emiliana romagnola (Ager), la società che gestisce la borsa cerealicola di riferimento in Italia, quella di Bologna.

 

Da oltre mezzo secolo, ogni giovedì, i vari attori della filiera (produttori agricoli, consorzi e cooperative, stoccatori, industrie molitorie e zootecniche, multinazionali, trader e broker) si ritrovano qui per stringere contratti destinati al mercato italiano. I prezzi di listino dettano una linea di tendenza importante anche per il commercio svizzero. Quello di Filetti è un osservatorio privilegiato per capire i fattori che hanno spinto a questo aumento: «Si sono sentite tante cose errate in questi giorni. Non vi è nessuna penuria, ma tanta speculazione, di cui la guerra è da sempre un fattore scatenante. Almeno la metà dell’aumento cui abbiamo assistito è legato a flussi speculativi che hanno investito le grandi piazze mondiali di scambio dei prodotti agricoli».

 

Il broker fa riferimento alle borse di Chicago e di Parigi: «Sono le più importanti a livello mondiale e sono contraddistinte dalla presenza di fondi che investono nelle materie prime agricole come se fossero un qualsiasi altro prodotto finanziario. È ovvio che c’è chi cerca di fare dei grossi guadagni approfittando di una situazione di estrema incertezza. Basta guardare i grafici quotidiani di alcune commodities per rendersi conto che siamo di fronte a importanti movimenti speculativi».

 

Finanza e fame

 

A prevalere sulle principali borse internazionali sono i cosiddetti futures. Si tratta di contratti “a termine” dove ci si accorda per comprare o vendere un preciso quantitativo di una materia prima, a un prezzo stabilito ed entro un preciso periodo di tempo. Quando sono nati nella Chicago dell’Ottocento, i futures avevano come obiettivo proteggere l’agricoltore di fronte ai rischi climatici e di volubilità dei prezzi. Oggi sono uno dei principali strumenti di speculazione da parte di operatori che nulla hanno a che fare con la filiera produttiva, ma che tentano semplicemente di guadagnarci scommettendo sull’andamento dei prezzi.

 

Un mercato virtuale che, però, ha sempre un impatto reale, come ci spiega il giornalista Stefano Liberti autore di diverse inchieste su tematiche agricole e del libro I signori del cibo (minimum fax, 2016): «Il problema è che i futures definiscono il prezzo a cui vengono poi comprate e vendute effettivamente in quel momento le derrate alimentari. I valori dei futures negoziati a Chicago si riverberano sui contratti che vengono conclusi alla borsa di Bologna e nelle altre piazze di scambio. E quindi l’azione di questi speculatori può avere effetti devastanti nel mondo reale come avvenuto nel 2007 e 2008 dove vi sono state sommosse per la fame in più di quaranta Paesi».

 

Oggi, con la guerra in Ucraina, diversi Stati del mondo temono che si riaccendano le tensioni in seguito al nuovo e repentino incremento del prezzo del grano. La guerra tra Russia e Ucraina potrebbe portare a «un uragano di fame» in tutto il mondo colpendo soprattutto i Paesi già toccati dall’insicurezza alimentare come quelli africani, ha dichiarato di recente il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Alcuni Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente sono quasi interamente dipendenti proprio dal grano russo e ucraino e cercano di colmare questo vuoto cercando contratti con altri Paesi. Ciò che genera un aumento della domanda, e quindi dei prezzi, sui mercati internazionali.

 

Le politiche agricole


Di fronte a questa situazione in Europa e anche in Svizzera si è tornati a parlare di sovranità alimentare. La commissione europea ha concesso una deroga agli obblighi concernenti i terreni “a riposo”. Queste aree sono state introdotte nel 2015 e impongono alle grosse aziende agricole di destinare il 5% della superficie a zone protette. L’obiettivo è quello di incidere sulle grandi aziende che hanno un impatto maggiore sulla biodiversità. Oggi, con il pretesto della guerra, vengono cancellate queste piccole conquiste a favore degli interessi dell’agro-industria da sempre oppostasi a questo tipo di misure.

 

In Svizzera, una richiesta simile è stata avanzata dall’Udc, il partito che storicamente rappresenta il mondo agrario, ma che fa capo a un miliardario che ha costruito il suo impero sulla chimica. L’Udc domanda al Consiglio federale di accantonare tutti i vari progetti “ideologico-sinistroidi-ecologisti” riguardanti il settore agricolo. Chiede insomma di coltivare in maniera intensiva cereali sulle superfici destinate alla biodiversità.

 

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Ma è davvero la produzione il problema? Per taluni esperti queste richieste sono sbagliate. Tra questi, Olivier De Schutter, professore belga e già relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto all’alimentazione. De Schutter è tra i firmatari di un appello di 500 esperti che mettono in luce i rischi di questo approccio produttivista e chiedono d’orientarsi verso un’agricoltura più verde. Riportato dalla stampa francofona, l’esperto cita tra le cause dell’alzarsi dei prezzi, oltre alla speculazione, l’aumento del prezzo del gas che impatta su tutta la filiera agricola. In particolare sul prezzo dei pesticidi e dei fertilizzanti, prodotti in gran parte in Russia a partire proprio da derivati del gas naturale. Continuare con questo tipo di agricoltura non fa che accrescere la dipendenza dai combustibili fossili e dagli Stati canaglia che li controllano.

 

Per De Schutter e altri esperti occorre anche mettere in questione la nostra alimentazione. Circa il 60% della produzione europea di cereali è usato per nutrire gli animali. Ridurre questa quota e dedicarla direttamente all’alimentazione umana permetterebbe di abbassare i prezzi del grano senza aumentare la produzione. In Svizzera, un terzo del grano coltivato è destinato al foraggio. La sovranità alimentare potrebbe forse partire da qui.

Pubblicato il

12.04.2022 09:45
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