Chi lavora dice No all'aumento dell'età di pensionamento delle donne

Reportage dalle vie dello shopping luganese e nelle fabbriche del Mendrisiotto

Se fosse per chi lavora dietro le vetrine dei lussuosi negozi di via Nassa o nelle fabbriche del Mendrisiotto, l’aumento dell’età di pensionamento delle donne in votazione il prossimo 25 settembre non avrebbe nessuna chance. Sebbene i risultati complessivi non saranno resi pubblici che il 12 settembre dal sindacato, gli exit poll della votazione sui posti di lavoro organizzata da Unia su scala nazionale non lasciano dubbi. La proposta di aumentare da 64 a 65 anni l’età della pensione delle donne sarebbe bocciata con una percentuale bulgara che sfiora il 100 per cento.


Non è certamente un dato sorprendente, ma lo abbiamo verificato accompagnando Emanuela Fraquelli, sindacalista di Unia, nel suo giro nelle boutique di via Pessina e via Nassa di Lugano, le strade del centro storico dove troneggiano le grandi marche del lusso. In un esercizio di democrazia sindacale, Unia ha voluto estendere il diritto di voto a chi lavora, indipendentemente dalla nazionalità, organizzando in tutto il paese una votazione con tanto di scheda e di urna nei posti di lavoro nei comparti professionali ad alta presenza femminile. Se certamente è motivo di vanto democratico il fatto che gli svizzeri a differenza di altri paesi possano esprimersi su un tema tanto centrale qual è la pensione, l’esclusione di una parte significativa delle dirette interessate rende l’esercizio democratico parzialmente monco. Tanto più che al finanziamento delle pensioni vi contribuiscono pure loro, siano esse residenti stranieri o frontaliere, l’equivalente di un terzo della forza lavoro per restare in Ticino.

 

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Diamo dunque voce a queste persone, tornando alle gentili signore che per piacere e dovere professionale sono sempre eleganti sul posto di lavoro di Via Nassa.

 

«Ma c’è qualcuno che dice sì?» chiedono stupite dalla domanda posta in votazione a livello federale. «Purtroppo gli ultimi sondaggi indicano che i favorevoli siano in vantaggio, tra cui anche molte donne» spiega la sindacalista alle attonite venditrici. L’ultimo sondaggio nazionale pubblicato lo scorso martedì indica i favorevoli al prolungamento dell’età pensionabile al 52%. La riforma sarebbe approvata dal 70% degli uomini e dal 37% delle donne, dicono i sondaggisti. «Vorrei capire chi sono le donne favorevoli. Dubito che debbano lavorare per vivere. Altrimenti non me lo spiego» risponde una commessa di una nota casa d’abbigliamento italiana.


Prolungare la vita lavorativa è considerato dalle commesse incomprensibile, scollegato dalla realtà del mondo del lavoro attuale. «Oggi puoi considerarti fortunata se hai ancora un lavoro in questo ambiente dopo i 55 anni. Con una clientela in gran parte composta da trentenni e quarantenni, nel nostro mestiere è importante che possano identificarsi in noi. Nel nostro lavoro l’esperienza conta, ma anche l’apparenza» sottolinea una venditrice di via Nassa.

 

L’allungamento della vita lavorativa è dunque visto come una proposta assurda e poco rispettosa di chi lavora. Benché le vediate sempre sorridenti, la professione di venditrice è un lavoro sempre più estenuante. In piedi tutto il giorno, intercalando il tempo dedicato alla clientela con lo scaricare e posizionare la nuova mercanzia in arrivo, inscatolare quella fuori stagione da rispedire o riordinare quella provata dai clienti, tutti i santi giorni è fisicamente logorante. Senza dimenticare il livello mentale. «Le condizioni sono peggiorate negli ultimi decenni. Siamo costantemente sotto pressione, con obiettivi di vendita da raggiungere sempre più alti».

 

Lo sa bene la sindacalista Fraquelli. Con un passato da venditrice al Fox Town, Emanuela conosce perfettamente le dinamiche del settore. I problemi più frequenti su cui la sindacalista è dovuta intervenire negli ultimi anni riguardano il mobbing delle gerenti sulle impiegate. «È la problematica maggiore su cui è richiesto il nostro intervento. Gerenti a cui sono imposti degli obiettivi di vendita sempre più esigenti, sfogano la loro frustrazione sulle impiegate arrivando a mobbizzarle». Sappiate che gli scanner posti all’entrata dei negozi, non servono solo a evitare i furti. Contano quante persone entrano ed escono senza spendere. Cifre sulle quali poi i dirigenti stabiliscono gli obiettivi da raggiungere.


Senza dimenticare le condizioni generali d’impiego nella vendita, dove è sempre più diffuso il lavoro precario su chiamata mascherato nei contratti a tempo parziale estremamente ridotte, al lavoro domenicale e nei festivi che impediscono una vita sociale e familiare normale. Comprensibilmente, la prospettiva di allungare la vita lavorativa non riscuote nessun consenso fra le commesse.


Alla fine del giro pomeridiano, l’urna sindacale conteneva 99 voti. Ad esprimersi sull’aumento dell’età di pensione delle donne sono state in netta maggioranza le dirette interessate, ma anche diversi colleghi maschi hanno voluto partecipare alla consultazione simbolica. In maggioranza erano lavoratrici che non potranno esprimersi alla votazione federale, escluse dal diritto di voto. Alcune di loro, invece, potranno votare e inviteranno amici e parenti a fare altrettanto. Infine, per dovere di cronaca il risultato della votazione: 98 No e un Sì.   

Dai vestiti griffati alle tute
Il giorno dopo seguiamo la votazione nelle fabbriche del Mendrisiotto. Oggi è il turno della Riri, la celebre marca svizzera specializzata nelle cerniere prodotte in gran maggioranza da braccia femminili italiane. In primavera, le trecento operaie e i colleghi maschi avevano dato vita a una giornata di sciopero per dire basta ai pesanti orari di lavoro imposti negli ultimi periodi e alle vessazioni di genere subite da capetti irrispettosi. Nella sala mensa della fabbrica, la votazione si svolge ritmata dalle cadenze dei vari turni in pausa pranzo.


«In fabbrica sono entrata quando avevo quindici anni e ora vorrebbero farmi uscire dopo cinquant’anni di lavoro. Questi sono pazzi...» è uno dei pareri raccolti. Anche in questo caso, anticipiamo l’esito del voto per nulla sorprendente. Dalle urne della Riri emergerà sarà un secco No. Neanche un sì. «Se le mie braccia potessero parlare, te lo spiegherebbero loro cosa vuol dire un anno in più di lavoro in fabbrica...» racconta un’operaia con alle spalle decine d’anni di lavoro usurante.


Anche in fabbrica a farla da padrone è l’incredulità. Il fatto che in Svizzera il diritto alla pensione dipenda dall’età e non dagli anni di contributi o dal tipo di mestiere svolto, rimane un mistero incomprensibile. Perché un conto è arrivare in pensione in salute, tutto un altro invece per chi la salute se l’è consumata in decenni di duro lavoro. Nell’unica eccezione, l’edilizia e alcuni rami artigianali, il prepensionamento a sessant’anni i lavoratori se lo sono conquistato al termine di dure battaglie col padronato. Vi ha contribuito non poco la constatazione che un edile su due arrivava ai 65 anni morto o invalido, come stabilì una statistica pubblicata all’epoca. Il diritto alla salute anche in pensione, non è uguale per tutti, ma dipende molto dalla classe sociale d’appartenenza.


«Il passaggio da 64 a 65 anni per le donne è solo un assaggio» spiegano i sindacalisti. A livello politico federale non mancano le proposte per allungare l’età di pensione di entrambi i sessi. A breve si voterà sull’iniziativa popolare dei giovani liberali che propone d’innalzare l’età di pensione a 66 anni per tutti e in seguito agganciarla alla speranza di vita. Più quest’ultima cresce, più ci toccherà lavorare, auspicano i giovani liberali. «Mi sembra giusto. Spero solo che ci daranno gratuitamente il girello per lavorare» risponde caustica un’operaia.

Pubblicato il

01.09.2022 13:54
Francesco Bonsaver