Storia di classe

Desidero affermare che l’atteggiamento degli studenti e del popolo nelle loro recenti manifestazioni (…) dovrebbe essere per voi fonte d’incoraggiamento e soprattutto una conferma del fatto che non esistono contraddizioni tra il popolo portoghese e il nostro popolo, che non c’è, non c’è mai stato e non ci sarà mai alcun conflitto a separarli, e che qualunque crimine i colonialisti possano commettere, in futuro i nostri popoli si uniranno in una collaborazione fraterna. (…)
Marcelo Caetano, quando è subentrato a Salazar, avrebbe potuto porre fine alle guerre coloniali, ma non voleva farlo. Siamo certi che questa missione sarà compiuta dal popolo portoghese, dai suoi lavoratori e contadini, dai suoi giovani, dai suoi intellettuali progressisti e anticolonialisti, da tutti coloro che veramente rispettano e amano il Portogallo e che sanno che combattere contro la guerra coloniale significa salvare il Portogallo dalle sofferenze, dalla rovina e dal pericolo per la propria indipendenza che questa guerra crea”.
Amilcar Cabral, intervista a Radio Voz da liberdade, 1969

Una decina di minuti dopo la mezzanotte del 25 aprile 1974, le frequenze di Rádio Renascença trasmettono le note di quella che, visto il suo utilizzo pratico, può essere definita come la canzone più rivoluzionaria di sempre.
Udendo questo “celebre segnale”, i militari progressisti scendono nelle strade e marciano su Lisbona. È l’inizio della Rivoluzione dei garofani, un enorme processo di massa che porrà fine a 50 anni di dittatura fascista in Portogallo e contribuirà in maniera decisiva ad archiviarne i 5 secoli di oppressione coloniale.


“Grandola Vila Morena”, del cantautore Zeca Afonso, ci racconta appunto di questa città dei Mori, simbolo di libertà, uguaglianza e fraternità, dove il popolo, più di chiunque, comanda. All’ombra di un albero di sughero, il popolo portoghese, aveva ormai promesso di sposare questi ideali.
Il 12 settembre 1924 in Guinea-Bissau, colonia portoghese, nasceva Amilcar Cabral, un uomo che per l’intero corso della sua vita avrebbe fatto della libertà e dell’uguaglianza i suoi vessilli. Con ogni mezzo, dalle parole alle armi, il rivoluzionario marxista africano lottò per rendere il potere al suo popolo, senza mai confondere la natura coloniale e di classe dell’impero portoghese con la nazionalità delle masse popolari che in quel Paese vi vivevano.


Cabral non poté mai vedere la realizzazione della missione per la quale si era battuto e per la quale fu ucciso. Eppure, la convergenza di intenti di due popoli in lotta aveva portato alla realizzazione del suo sogno di indipendenza per la Guinea-Bissau. Era il 24 settembre 1974.
Nel settembre del 2019 l’Amazzonia brucia, e non è la sola. Il presidente francese Macron chiama astrattamente a raccolta la comunità internazionale e il presidente brasiliano Bolsonaro, giocando la carta nazionalista, lo accusa di adottare una «mentalità coloniale».
Il primo non si rende conto che il liberismo ecologico è una contraddizione in termini. Il secondo, come suggeriva Cabral, non si rende conto che non esistono contraddizioni fra popoli. Indipendentemente dalle epoche e dai Paesi in campo, solo la collaborazione fraterna fra tutti i popoli potrà salvare il mondo dalla sofferenza e dalla rovina.


Una «mentalità coloniale» non dipende dal passaporto o dalle origini, bensì dai rapporti di potere esistenti fra differenti società. Per sbarazzarcene definitivamente dobbiamo seguire l’esempio di Grandola, città dei Mori, e far sì che il popolo, più di tutti, comandi.

Pubblicato il 

12.09.19
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