Sta terminando la processione davanti alle telecamere dei ticinesi sopravvissuti allo tsunami fra centomila morti. Basta con gli interminabili racconti di gente che scappa sulla collina aiutata dalla popolazione locale che ha così poco ma è così generosa, mentre scorrono immagini traballanti di palme sfuocate e brandelli di cielo e tutti urlano “oh my god, my god”. Il ticinese in cerca d’avventure torna alla normalità: spente le luci del telegiornale sul suo volto rubicondo, si riaccendono quelle del Bigio. Tutti baldanzosi a far la fila per andare a “Uno, nessuno, centomila”, spinti dalla moglie, dagli amici, dai colleghi, perché a casa indovinano sempre. Tutti a soffrire in studio, un caldo boia, le mani che tremano, le lettere che si confondono, le buste che ballano, il miraggio dei centomila e non capire che la parolina è “castagna”, o “festività”, o “panettone”. Tutti a sentirsi aprire sotto di sé l’abisso della vergogna per la figuraccia fatta di fronte ai parenti, agli amici, ai colleghi, a un intero cantone. Poveri cristi. Era meglio sopravvivere allo tsunami. |