Ccl vendita, analisi di un prodotto scadente

Orari e stipendi sono i problemi principali di chi lavora nel ramo. La bozza di contratto porterĂ  dei miglioramenti o peggiorerĂ  la vita delle dodicimila persone attive nel settore?

Commercianti e politici di successo hanno in comune l’essere dei buoni venditori. Maestri nell’affabulazione, magnificano gli aspetti benefici del prodotto, trascurando abilmente quelli negativi. L’esposizione del nuovo Ccl della vendita cantonale che influenzerà la vita di 12’000 persone non sfugge alla regola. Approvato a maggioranza dagli invitati al tavolo dal governo con la sola eccezione di Unia, analizziamo la bozza di contratto collettivo nella vendita con occhio critico, svelando la vera natura del prodotto.

 

Salario e l’orario di lavoro sono le due preoccupazioni principali per chi è impiegato nella vendita. Il tempo di lavoro può rivelarsi una tirannia sulla vita sociale e familiare delle persone. Con la nuova legge sulle aperture approvata in Ticino lo scorso febbraio da sei votanti su dieci, la loro vita subirà altri condizionamenti.

 

Se dovesse entrare in vigore, i negozi potranno restare aperti dalle 6 alle 19 in settimana e fino alle 18.30 al sabato. Senza dimenticare le cinque giornate festivi in più a cui dovranno rinunciare. Ore e giorni di apertura dove sarà possibile spalmare le ore del personale con contratti superiori al 50%. Una spalmatura invece vietata a chi ha dei contratti inferiori a metà tempo, stando al nuovo ccl proposto. A prima vista un fatto positivo e infatti enfatizzato dai sostenitori del nuovo ccl. Quanti impiegati della vendita ne beneficeranno? Grazie a un’elaborazione dei dati realizzata su nostra richiesta dall’Ufficio statistica cantonale, si può stimare che un venditore su dieci ha un contratto inferiore al 50%. Se aggiungiamo che in buona parte della grande distribuzione il divieto di spalmatura non vale, i dipendenti beneficiari saranno pochini.

 

Questo solleva un altro aspetto problematico della bozza di Ccl. I suoi aspetti positivi (in realtà uno solo) rispetto ai contratti aziendali delle grandi imprese non potranno essere ripresi. Il divieto di frazionamento dell’orario del personale non riguarderà il personale di Migros, che stando ai dati nazionali, la metà è impiegata a tempo parziale. Stesso discorso per Coop e Lidl. Questi gruppi godranno di un’estensione degli orari e giornate festive a costo zero. Un buon affare, per loro. Per buona parte delle dodicimila persone attive nella vendita in Ticino, la vita continuerà dunque a essere una corsa a ostacoli nel difficile equilibrio tra vita lavorativa e vita sociale.

 

Il loro datore potrà continuare a programmargli turni di qualche ora a inizio mattinata e, dopo alcune ore di forzato riposo, richiamarlo nel tardo pomeriggio. Oppure potrà spalmargli le sue ore nell’arco dei sei giorni a suo piacere. Tutto a norma di contratto, dove nessun limite è stato posto al frazionamento. Venduto come un gran progresso sociale del nuovo ccl, il divieto del frazionamento orario si rivela un’operazione pubblicitaria dal contenuto molto limitato.

 

Veniamo ora alla seconda questione spinosa per chi lavora nel ramo, lo stipendio. Oggi nel ramo esistono solo i contratti aziendali dei grandi gruppi citati, dalle condizioni relativamente buone. Il resto è lasciato alla libera contrattazione individuale (o libero sfruttamento che dir si voglia), nei deboli limiti della legge sul lavoro o codice delle obbligazioni.

 

Qualche anno fa, il governo è dovuto intervenire decretando un contratto normale di lavoro per i negozi con meno di dieci dipendenti per arginare il dilagante dumping. Quale soglia limite alla corsa al ribasso delle paghe, il governo pose allora un salario minimo di 3.050 franchi lordi. Un salario indecente e insufficiente per vivere in Ticino, ma giustificato politicamente quale barriera invalicabile al degrado. Di tutt’altra cosa dovrebbe essere il salario minimo di un contratto collettivo di lavoro, frutto di un accordo tra partner sociali. Nella bozza ccl invece, il minimo salariale cresce di un centinaio di franchi, e di 50 franchi per gli impiegati dei negozi con meno di dieci dipendenti. Per l’esattezza le paghe minime saranno da 3.200 franchi lordi, 3.400 per il diplomato assistente alla vendita e 3.600 per il diplomato d’impiegato al commercio. «Se dovessi percepire quella paga, quei 3.200 franchi lordi, non so come farei a sopravvivere in Ticino. - ha detto un venditore a una riunione di Unia - Abito nella periferia luganese in un appartamento da 3,5 locali con un affitto da 1.500 franchi. In famiglia siamo in tre e paghiamo quasi mille franchi di cassa malattia. Dovrei rivolgermi all’assistenza per sopravvivere». Infatti, al netto, la paga minima si aggira sui 2’700 franchi. «Come minimo, sei costretto a far la spesa in Italia per sopravvivere. Un paradosso, non ti danno neanche abbastanza per spendere dove lavori…» ha rincarato un’altra venditrice presente. Fallimentare dunque anche il presunto beneficio derivante dalla bozza di ccl, venduto come tale dai suoi sostenitori.

 

Nel ramo, il numero dei frontalieri è quasi raddoppiato mentre sono cresciuti di poco gli impiegati totali. Con questi salari che precludono l’impiego ai residenti, questa tendenza crescerà notevolmente. Almeno per i prossimi quattro anni, essendo quei stipendi bloccati per quel periodo «Con questo contratto, con questa paga, nessun residente sarà assunto nella vendita. E lo dico da frontaliere» è il salomonico giudizio di un partecipante alle assemblee sindacali. Saggezza popolare ignorata (volutamente) al tavolo dei presunti sapienti.

Pubblicato il

01.07.2016 16:23
Francesco Bonsaver