La Svizzera è schierata al fianco degli Stati Uniti nella lotta alle finanze del terrore. Berna ha confermato, la settimana scorsa, di aver ricevuto da Washington una richiesta di assistenza giudiziaria collegata agli attacchi contro le Twin Towers di New York e il Pentagono. Il ministero di Giustizia ha immediatamente ammesso la richiesta che è pervenuta sul tavolo del Ministero pubblico della Confederazione, Valentin Rorschacher. Con questo atto ufficiale il paese entra in una fase concreta di appoggio alla superpotenza americana nella caccia ai conti occulti del terrorismo. Le autorità americane, e gli alleati di George Bush, attendono da Berna un’azione efficace, capace di interrompere i flussi di finanziamenti, nel caso in cui fondi e capitali sospetti dovessero transitare in Svizzera.
Dopo gli aiuti concessi da Lussemburgo e Liechtenstein, gli sguardi sono puntati sulla piazza finanziaria elvetica, uno dei principali centri off-shore, in cui banche e altre istituzioni finanziarie operano anche (ma non soltanto) tramite filiali presso i cosiddetti paradisi fiscali – Bahamas, isole Cayman, ecc. – cioè in quei paesi caratterizzati da una legislazione fiscale e finanziaria poco severa o inesistente.
Il ruolo della Svizzera nell’inchiesta
Cosa può fare la Svizzera nella lotta ai finanziatori occulti del terrorismo? Nei giorni scorsi Berna ha inviato ripetutamente segnali di collaborazione. Sono state accelerate le indagini su alcuni conti sospetti (15 conti provvisoriamente bloccati in 4 istituti finanziari sono già stati svincolati), ma le banche dovranno spulciare dati in tutte le filiali, anche quelle nel mondo arabo e in paradisi fiscali. Martedì il Ministero pubblico della Confederazione ha precisato che la Svizzera non ha fornito né aiuti logistici né finanziari per la preparazione degli attentati. Ha tuttavia comunicato il blocco di un nuovo conto contemporaneamente al ritiro del vincolo su un altro conto presso una banca zurighese, congelato nei giorni scorsi. Ci vorrà ancora molto tempo, ha spiegato il procuratore generale della Confederazione Valentin Roschacher, per le ricerche sulle transazioni finanziarie.
Ma come funziona il controllo sui conti sospetti? Gli istituti bancari, oltre alla legge, sono sottoposti al controllo e sorveglianza di una apposita Commissione federale. Gli ingranaggi per stringere il cerchio attorno ai movimenti finanziari dei criminali sembrerebbero ben oliati in questo settore, in cui si registrano da trent’anni interventi di riassetto normativo. Incognite pesano invece sul settore degli «intermediari finanziari», gestori, fiduciari, agenti di cambio, avvocati o società commerciali, presso cui vengono depositate o transitano somme di denaro appartenenti a terzi. Per questa categoria, piuttosto difforme, vigono le norme in vigore dal gennaio 2000, contenute negli articoli della Legge federale antiriciclaggio del 1985. La nuova legislazione, frutto di un lavoro di circa dieci anni, ha sortito fino ad oggi effetti indesiderati. Si è rivelata complessa, di difficile applicazione. La legge estende il principio di autoregolamentazione a tutti gli intermediari finanziari che sono obbligati a denunciare un cliente «sospetto», allorché entrano in relazioni d’affari come accettare beni per trasferimento, deposito, gestione o investimenti. Se opera invece un semplice versamento l’operatore non è tenuto a procedere all’identificazione del cliente. L’obbligo si applica però alle transazioni superiori a 10 mila franchi.
Oggi gli operatori non si confrontano con trafficanti che si finanziano con attività illegali quali il traffico di droga, ma con attività lecite che poi servono a pagare i terroristi. I fondi del terrore arrivano da canali puliti. Diventa allora arduo inseguirli controcorrente, si rivela inutile se si tengono aperti i rubinetti da cui possono scorrere verso destinazioni irraggiungibili. È possibile aumentare i gradi di anonimato grazie a triangolazioni su più territori off-shore, una tecnica che anche un dilettante sarebbe in grado di mettere in pratica.
Un piano radicale per rafforzare i controlli
Serve un piano radicale, quale la chiusura delle casseforti finché non verranno rivisti e rinforzati gli strumenti di controllo. La proposta, provocatoria e irrealizzabile, viene da diverse fonti. La settimana scorsa, nelle colonne di un quotidiano italiano, l’avvocato Paolo Bernasconi, uno dei padri della legge antiriciclaggio e per circa vent’anni procuratore a Lugano, la riteneva certo «una proposta radicale, ma non meno dell’emergenza in cui gli attentati di New York e Washington hanno precipitato il mondo».
A Ginevra, l’avvocato Carlo Lombardini, specialista della legge antiriciclaggio, non nega che la tensione attuale comporta un certo grado di confusione, e che questa situazione potrebbe sfociare in comportamenti non idonei.
D’altronde, sottolinea, «con i gravissimi problemi posti dalla lotta antiterrorismo è difficile pensare che si possa risolverli con la lotta antiriciclaggio fatta per identificare e combattere una criminalità del tutto diversa, per la quale il raggiungimento del beneficio economico rappresenta lo scopo principale del disegno criminoso».
Chiudere le casseforti, dunque? L’idea riassume l’eccessiva prudenza che gli operatori usano in questo frangente, dove il sospetto di collegamento ad ambienti del fondamentalismo islamico o ad altri ambienti terroristici grava come una spada di Damocle e spinge a rifiutare nuovi clienti.
In un’intervista al settimanale romando L’Hebdo, Kaspar Villiger esortava a non cadere in «una sorta di razzismo finanziario». Essere un cliente arabo, o un islamista, non costituisce una ragione sufficiente per discriminarlo. Il ministro delle Finanze ha ricordato che «il segreto bancario non è al servizio dei riciclatori di fondi occulti né dei finanziatori del terrorismo», non è al di sopra di ogni interesse, come continua a credere certa opinione pubblica internazionale.
La legge svizzera prevede che esso possa essere «violato» quando ha luogo una procedura penale aperta nel territorio nazionale. Per atti di terrorismo il segreto bancario decade immediatamente.
Detective antiriciclaggio, missione impossibile
La legislazione in vigore attribuisce alle banche e agli intermediari finanziari un ruolo chiave, quello dell’informazione sui clienti sospetti. Queste vengono trasmesse all’Ufficio di comunicazione in materia di riciclaggio, a Berna (presso il ministero di Giustizia), dove si procede alle prime investigazioni. Si passa allora all’utilizzo di mezzi coercitivi sul piano finanziario, e l’identificazione di possibili coperture grazie a prestanomi e società fittizie. Interviene allora il Ministero pubblico della Confederazione, sorta di procuratore federale nelle cui uniche mani verrà concentrata la lotta al riciclaggio a partire dal 1°gennaio 2002.
Chi verifica se l’operatore finanziario ha svolto il proprio «dovere di diligenza»? Il compito spetta agli Organismi di autoregolamentazione, società private a cui fanno capo gli intermediari finanziari di un dato settore. Sono circa una dozzina, tra cui figura La Posta, le Ffs, o l’Associazione degli intermediari finanziari. Queste società o associazioni appaltano i mandati presso l’Autorità di controllo in materia di riciclaggio, a Berna (presso il ministero delle Finanze) e sono pagate dalle entità fatte oggetto di controllo. L’Autorità di controllo è composta da appena una decina di persone, dopo la vague di dimissioni registrate dall’inizio dell’anno a causa, per i dimissionari, dell’ «impossibilità di condurre a buon porto il lavoro». Gli intermediari, ad esempio i gestori di fondi indipendenti, subiscono dei controlli a campione da professionisti del settore. Un vantaggio e una potenziale anomalia nello stesso tempo. Un vantaggio perché le verifiche vengono effettuate da professionisti del settore che conoscono i trucchi del mestiere. Un’anomalia potenziale perché questi professionisti potrebbero ritrovarsi di fronte ad un eventuale conflitto di interessi.
Le regole del gioco
Gli investigatori internazionali, sguinzagliati a tutto campo da George Bush, conoscono bene le regole del gioco. Si appigliano al potere discrezionale degli operatori bancari e finanziari. Quello che li porterebbe a scardinare il rapporto fiduciario con i clienti per rivelare notizie che quest’ultimi vorrebbero tenere riservate. In certi casi è impensabile che questo avvenga. Circolano adesso nomi come quelli di Al Shamal Islamic Bank, istituto bancario sudanese, che intrattiene relazioni con le Credit Lyonnais (Suisse) e l’United European Bank, del gruppo Bnp-Parisbas, entrambe presenti a Ginevra. Per quanto riguarda la finanziaria con sede in Ticino Al Taqwa, gli accertamenti non hanno trovato indizi che confermassero che alcuni conti fossero da mettere in relazione con Osama Bin Laden.
Intanto la pressione sul nostro paese è stata accentuata sabato scorso dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, a New York, che obbliga i 189 stati-membri a congelare le finanze dei terroristi, e aiutare le indagini internazionali. La caccia ai finanziatori del terrore, condotta fino a ieri sull’asse Usa-Ue – con l’appoggio della Russia, Giappone e Canada, si muta adesso in azione globale.
La candidatura della Svizzera all’adesione Onu potrebbe essere valutata sul contributo che il governo darà alla coalizione internazionale che si è stretta attorno agli Stati Uniti. |