«Casale Monferrato come Chernobyl»

Il territorio è inquinato dall'amianto dell'Eternit e la qualità della vita dei cittadini dalla convivenza con la malattia. Casale Monferrato è una città che soffre, ma che non si stanca di lottare per la giustizia. A quasi quarant'anni dalle prime storiche battaglie sindacali condotte dentro la "fabbrica della morte" in difesa della salute dei lavoratori e dopo migliaia di lutti, in questa comunità di 36 mila abitanti della provincia di Alessandria si guarda con grande fiducia all'appuntamento di lunedì prossimo a Torino, dove dopo più di due anni di dibattimento sarà pronunciata la sentenza del processo contro gli ex dirigenti della multinazionale dell'amianto.

I due imputati, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il nobile belga Jean Louis Marie Ghislain De Cartier, rischiano vent'anni di carcere (questa è la richiesta della pubblica accusa) per disastro ambientale doloso permanente e omissione dolosa di misure anti-infortunistiche sui luoghi di lavoro. Reati che si riferiscono all'attività industriale svolta fino alla metà degli anni Ottanta nei cinque stabilimenti di Eternit Italia: a Cavagnolo (provincia di Torino), Rubiera (Reggio Emilia), Bagnoli (Napoli) e, naturalmente, a Casale Monferrato, dove la presenza della fabbrica ha prodotto una strage di dimensioni quasi inimmaginabili. Qui, dall'inizio degli anni Ottanta sono già morte più di 1.800 persone (tra ex lavoratori e semplici cittadini) a causa del mesotelioma pleurico o peritoneale, che sono delle forme tumorali inguaribili e dalla prognosi infausta.
I dati epidemiologici sono impietosi: mentre in Italia il tasso d'incidenza della malattia è di un caso (tra i maschi) e di 0,5 (tra le donne) ogni 100 mila abitanti l'anno, a Casale è di 38 uomini e 23 donne. Dal 1990 si assiste a un continuo aumento delle nuove diagnosi, passate dalle 15-25 alle 40-50 annuali.
Ma in questa comunità, dove in ogni casa si piange almeno un morto d'amianto, c'è anche «una diffusa paura di vivere», spiega ad area l'oncologa Daniela Degiovanni, che si occupa di mesotelioma sin dalla fine degli anni Settanta, cioè da quando esso «è diventato il tumore di questa città». La incontriamo presso il centro Hospice Zaccheo, struttura ubicata nei pressi dell'ospedale cittadino e concepita per accogliere i pazienti in fase avanzata della malattia che per ragioni varie non possono più essere seguiti al loro domicilio. Diretta dalla stessa dottoressa Degiovanni, Hospice è una delle tante offerte assistenziali che nel corso degli anni si sono sviluppate a Casale Monferrato per dare risposte adeguate alle sofferenze di centinaia di malati di mesotelioma.
Daniela Degiovanni nel corso della sua carriera li ha incrociati quasi tutti. Molti di quelli che lavoravano all'Eternit ancora prima che si ammalassero: «Appena laureata svolgevo attività di consulenza per le malattie professionali per il patronato Inca-Cgil. In quell'ambito ho conosciuto direttamente la stragrande maggioranza degli operai della fabbrica e grazie a loro mi sono potuta rendere conto della gravità della situazione. Insieme ai leader del movimento sindacale Bruno Pesce e Nicola Pondrano, ho dunque iniziato a lavorare intensamente al problema.  Per me, come medico, questo significava da un lato acquisire conoscenze su una malattia di cui anche all'università avevo sentito parlare poco e dall'altro sensibilizzare la popolazione».
Il fatto di doversi occupare dei malati di mesotelioma rende dunque particolare la professione di oncologo?
Sì, perché il mesotelioma è un tumore diverso dagli altri. Non tanto perché è una patologia ancora inguaribile e gravata di una grande sofferenza fisica, ma perché la sua diagnosi suona all'orecchio di tutti come una morte annunciata e viene vissuta dai malati, dai loro familiari e da tutti i cittadini come ingiusta e inaccettabile. Di questo tumore si conosce il nome e il cognome di chi l'ha causato e dunque non viene accettato con quella stessa sorta di fatalità con cui in generale la maggior parte di noi accetta la comparsa di un tumore. Nelle persone si scatena la rabbia, il che rende più difficile affrontare la malattia dal profilo della relazione tra medico e paziente ma anche, più in generale, all'interno di una comunità.
In che misura la convivenza forzata con le malattie da amianto e con gli eventi luttuosi influenza la qualità di vita della popolazione sana?
Col tempo, i sentimenti di rabbia, di angoscia e di paura si sono estesi dai malati e dalle loro famiglie anche ai cittadini sani. I casalesi e gli abitanti dei paesi limitrofi vivono una sorta di psicosi da mesotelioma. Non si tratta di una banale situazione di paura di ammalarsi, ma di un oggettivo stato di disagio psicologico definito clinicamente come "disturbo post-traumatico da stress". Una sindrome che coglie quelle persone che sono state partecipi o vittime di grandi catastrofi (come un terremoto, un disastro nucleare o una guerra) e che si manifesta con la paura e l'angoscia che l'evento si possa ripetere. I cittadini della regione di Casale vivono una situazione simile a quella di Chernobyl (la città ucraina dove nel 1986 è avvenuto il più grave incidente della storia in una centrale nucleare, ndr). Si tratta di un fenomeno grave almeno quanto la malattia vera e propria. Un fenomeno che comporta turbe emozionali tali da gravare pesantemente sulla salute e sulla qualità di vita presente e futura dell'intera comunità: sta diventando una malattia nella malattia, di cui a mio avviso il Tribunale di Torino dovrebbe tenere conto nella formulazione del suo giudizio.
Quali previsioni si possono formulare circa l'evoluzione dell'incidenza della malattia?
Le previsioni epidemiologiche indicano che fino al 2020 o al 2025 ci sarà un ulteriore incremento dell'incidenza: ci aspettiamo che le attuali cinquanta nuove diagnosi all'anno aumentino fino a circa 60. Solo tra una quindicina di anni possiamo sperare di cominciare ad assistere, dove la bonifica sarà stata realizzata, ad un'inversione di tendenza. Purtroppo saranno ancora molti i cittadini che si ammaleranno e moriranno.
E per quanto riguarda le cure ci sono speranze?
Dal punto di vista biologico e terapeutico, il mesotelioma è tuttora una malattia inguaribile.  Per molto tempo, come spesso succede con le malattie rare, è stato preso in scarsa considerazione dalla ricerca, la quale però negli ultimi anni si è un po' risvegliata. Attualmente si stanno sperimentando nuovi farmaci con i quali si può sperare di ottenere un giorno dei risultati almeno in termini di sopravvivenza, come succede per molti altri tumori.
Dal punto di vista dell'assistenza ai malati, la situazione di Casale Monferrato ha consentito di fare dei progressi?
La gravità dei sintomi e della sofferenza determinata dal mesotelioma ha fatto sì che in questa città nascessero delle forme assistenziali che forse si sarebbero sviluppate con più lentezza se tutto questo non si fosse verificato. Gli oncologi casalesi, insieme agli anatomopatologi, ai radiologi e ai pneumologi sono diventati specialisti particolarmente esperti nella malattia. Oggi siamo in grado di seguire il paziente lungo tutto il percorso della malattia, dal momento della diagnosi fino alla morte. All'interno dell'ospedale ci avvaliamo di esperti psico-oncologi e disponiamo di un centro di terapia antalgica che ha sviluppato tecniche mirate e particolarmente efficaci nei confronti del dolore da mesotelioma, che spesso non è trattabile con i comuni farmaci antidolorifici, nemmeno con dosi massicce di oppiacei. Attraverso il personale specialistico dell'Associazione di volontariato Vitas (costituita nel 1996) siamo inoltre in grado di seguire i pazienti al loro domicilio anche fino all'ultimo giorno di vita. E quando questo non è possibile, entra in gioco la struttura in cui ci troviamo ora, dove essenzialmente vengono fornite cure palliative e viene assicurato il sostegno psicologico, sia ai malati sia ai loro familiari, che seguiamo anche dopo la morte del congiunto.

La sconfitta di Schmidheiny

A pochi giorni dalla sentenza che per lui potrebbe significare una condanna a vent'anni di carcere, Stephan Schmidheiny ha subito la settimana scorsa la sua prima sconfitta dopo il rinvio a giudizio davanti al tribunale di Torino.
La sua proposta di transazione con il Comune di Casale Monferrato, in un primo tempo accettata dalla giunta e dalla maggioranza di destra del Consiglio comunale, è infatti stata definitivamente respinta dallo stesso esecutivo comunale.
Se Casale avesse accettato i 18 milioni di euro offerti da Schmidheiny, il Comune simbolo della lotta all'amianto si sarebbe dovuto ritirare come parte civile dal processo di Torino e rinunciare ad avanzare pretese in qualsiasi altro procedimento futuro contro l'ex padrone della Eternit.
Il dietrofront del sindaco e dell'amministrazione lo si deve all'eccezionale mobilitazione di una città intera, che di quel "patto col diavolo" non ne voleva sapere. Sarebbe stato  un'ulteriore offesa a una comunità già ferita dagli eventi della storia. Una comunità che con signorilità e compostezza ha fermato un sindaco scriteriato.


Pubblicato il

10.02.2012 02:00
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