Sono costretti a dormire su materassi di fortuna, hanno a disposizione nove docce ogni cento persone, non svolgono sufficiente movimento e attività sportiva, viene concesso loro troppo poco tempo per le visite e le telefonate e le misure di reinserimento non vengono garantite in modo adeguato. Questa è la vita dietro le sbarre per molti detenuti anche in Svizzera, dove il fenomeno della sovrappopolazione carceraria non è drammatico ma in alcune realtà, soprattutto della Svizzera romanda, assume proporzioni inquietanti.

Non è un caso che il problema sia già stato oggetto, nel 2008, di un rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), il quale aveva in particolare chiesto spiegazioni alle autorità ginevrine per la situazione di vera e propria emergenza del carcere di Champ-Dollon. Un carcere dove si registra una «sovraoccupazione cronica» che ormai ha raggiunto il 200 per cento: la sua capacità originaria (di 270 posti) nel corso degli anni è infatti stata raddoppiata con accorgimenti quali la posa di letti a castello che ha consentito di trasformare le celle singole in doppie e di ricavare in quelle triple spazio per cinque detenuti. Allo stato attuale i detenuti hanno addirittura superato quota 600.
Il tutto con pesanti conseguenze sulla vita carceraria all'interno della struttura: «La situazione è esplosiva», commenta un ex detenuto intervistato recentemente da Le Matin. «I carcerati vivono rinchiusi 23 ore su 24. Ogni cosa è pretesto per un litigio. Un detenuto si trova una forchetta conficcata nella mano per aver spinto involontariamente un compagno in fila per il pranzo. Altri prigionieri vengono alle mani per una banana più o meno matura, per una sigaretta o (e questo è un classico) per il telecomando della televisione. I problemi non si discutono. Si regolano a botte», confida l'uomo spiegando come il problema della sovrappopolazione rallenti anche l'attività amministrativa del carcere (ottenere un documento, un appuntamento dal medico, eccetera) e renda le guardie carcerarie «più tese, più nervose, più aggressive. Quando ci si rivolge a loro, non rispondono. E questo fa molto arrabbiare i detenuti, che sono totalmente dipendenti dai secondini».
La drammaticità della situazione a Champ-Dollon è riconosciuta anche dall'Unione svizzera dei secondini, il cui presidente Eric Schmid avanza previsioni inquietanti: «Le guardie carcerarie fanno del loro meglio, ma ad un certo momento, malgrado tutta la buona volontà, non si potrà più andare avanti. Non penso che terremo fino in estate, le cose finiranno con l'esplodere», afferma.
In effetti, ci spiega dal canto suo Denise Graf, responsabile svizzera del "Programma diritti umani" di Amnesty International, «quello del sovraffollamento è un problema che impedisce alla guardia carceraria di svolgere il suo lavoro (cioè di aiutare il detenuto a preparare la sua reintegrazione nella vita civile) e la trasforma in un poliziotto. Ma il fenomeno incide sulla qualità del lavoro anche del resto del personale del carcere (assistenti sociali, formatori, educatori, eccetera) che, indipendentemente dalla sua volontà, ha sempre meno tempo da dedicare ai detenuti».
A pagare il prezzo di questa situazione sono innanzitutto i carcerati: «In primis i cosiddetti "internati per motivi di sicurezza". Per loro la prigione è già il posto sbagliato e quando sono costretti a vivere in una struttura che "scoppia" vivono di regola un sentimento di ingiustizia che li porta a ribellarsi, e alla fine, a vedersi drasticamente ridurre le possibilità di lasciare il carcere. È insomma un circolo vizioso», spiega Denise Graf, facendo presente che «la Cpt in taluni casi equipara il sovraffollamento a una forma di "tortura"». Il danno più grave comunque, è convinta la nostra interlocutrice, alla fine lo subisce l'intera società: «La detenzione in carcere ha lo scopo di riabilitare l'individuo alla vita sociale e dunque di fare in modo che una volta tornato in libertà non finisca nuovamente nel mondo della criminalità. Per raggiungere questo scopo è necessario garantire al detenuto profondo rispetto (come dimostra l'esperienza esemplare, che mi ha positivamente colpita, del carcere di Appenzello Esterno), perché ciò lo aiuta a guadagnare stima in sé stesso e in seguito a conquistarsi quella degli altri, anche al di là delle sbarre. Ma questo comporta un intenso lavoro di sostegno e di accompagnamento del detenuto durante la vita carceraria, che in una struttura sovraffollata non è possibile».
«Se il carcere non consente di compiere questo percorso -conclude Denise Graf- il rischio che l'individuo torni a commettere reati aumenta enormemente. Così come il conseguente danno all'intera società».


«Si arresta con troppa facilità»

Il penalista e criminologo Christian-Nils Robert punta il dito contro l'«utilizzo smodato della detenzione preventiva»

Professor Robert, le carceri svizzere sono sovraffollate perché vi è una carenza di strutture penitenziarie o perché si mandano troppe persone in prigione?
Per entrambe le ragioni, come ben dimostra il caso del Canton Ginevra dove il problema del sovraffollamento è più grave e dove storicamente si fa un ricorso smodato alla detenzione preventiva. Una pratica, influenzata dall'abitudine francese di arrestare le persone e solo in seguito chiarire la vicenda, che avevo già constatato nel 1972 nell'ambito di uno studio comparativo con le realtà degli altri cantoni latini e che è ancora oggi molto radicata. L'anomalia di Ginevra emerge infatti anche dai risultati di una messa a confronto (realizzata nel 2006) della situazione di Ginevra e quella di Basilea, due cantoni di frontiera simili con una popolazione più o meno equivalente. Ancora una volta il primo si è distinto per una spiccata propensione ad arrestare le persone e a mantenerle a lungo in detenzione preventiva. Un aspetto quest'ultimo già oggetto di diverse prese di posizione critiche del Tribunale federale, che in più casi ha rilevato il mancato rispetto del principio di proporzionalità. L'ultima volta pochi mesi fa in relazione al caso di una donna che era accusata di aver rubato due o trecento franchi e che è rimasta in detenzione preventiva per addirittura un mese.
La revisione del Codice penale entrata in vigore nel 2007, che mira a sostituire le pene detentive fino a sei mesi con pene pecuniarie, non dovrebbe contribuire a ridurre i casi di incarcerazione?
Se i giudici di questo Paese rispettassero il fodamentale divieto di pronunciare pene detentive inferiori a sei mesi, non saremmo in questa situazione. Evidentemente non lo fanno perché, in genere, considerano la soluzione adottata come troppo teorica, troppo accademica. Ma le cose non stanno così: il nuovo Codice è stato elaborato con il contributo di magistrati, avvocati e professori universitari, che non sono marziani lontani dalla realtà. È un Codice che si fonda sull'esperieza che ha dimostrato, in Svizzera come in altri Paesi, che le pene detentive brevi non servono a nulla e, anzi, sono dannose.
Tra il 1992 e il 2006 sono quadruplicati (da 46 a 199) i casi di internamento dei cosiddetti "delinquenti anormali" e ora, il nuovo Codice dà al giudice la facoltà di disporre l'internamento a tempo indeterminato per prevenire il rischio di recidiva. Dobbiamo attenderci un nuovo aumento di questi casi?
La crescita di questi casi non è dovuta a una nuova forma di delinquenza, ma alla pratica molto restrittiva degli ospedali psichiatrici nel prendersi cura di queste persone. Gli ospedali, al contrario del carcere, sono strutture aperte che hanno drasticamente ridotto la durata dei ricoveri e aumentato la loro frequenza. Molti soggetti non vengono dunque più ammessi e finiscono in prigione, che però non rappresenta certo la soluzione ideale. Per fermare dunque questa deriva, s'impone la realizzazione di strutture ad hoc in cui venga garantito prevalentemente un intervento terapeutico di carattere psichiatrico.
Quali altre misure concrete intravede per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri?
A mio avviso è necessario agire sul piano politico internazionale, attraverso una modifica della cosiddetta "Convenzione europea sul trasferimento dei condannati", la quale permette di rinviare una persona condannata in via definitiva a scontare la pena nel suo paese d'origine. Ma solo con il suo consenso. Questa clausola a mio avviso andrebbe abolita, in quanto non più attuale. Essa fu infatti inserita nella Convenzione in un'epoca in cui vi erano troppe e profonde differenze tra i sistemi penitenziari europei, che nel frattempo hanno subito un'omogeneizzazione. Andrebbe inoltre irrobustita la rete di Accordi di riammissione (soprattutto con gli Stati africani), che altro non sono che l'applicazione forzata del diritto di ogni cittadino a rientrare nel suo Paese. Naturalmente il rimpatrio deve essere compatibile con le norme del diritto d'asilo.     

Pubblicato il 

11.06.10

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