Capitale, lavoro e la lotta di classe. La vulgata dominante vorrebbe confinarla agli albori della rivoluzione industriale, ma la verità oggettiva dei dati del ventunesimo secolo racconta quanto sia più viva che mai. «È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo» confidò a un giornalista del New York Times una quindicina d’anni fa il magnate americano Warren Buffet, valutato oggi da Forbes il sesto uomo più ricco del mondo. Ma non c’è bisogno di varcare l’oceano per constatare l’attualità della lotta di classe in perenne movimento. Tra le alpi svizzere, troviamo una famiglia che da decenni fa parte dell’esclusivo club dei più facoltosi del Paese, del quale ne influenza la vita politica tenendo ben strette le redini del partito nazionale più importante, l’Unione democratica di centro. A differenza dei facoltosi sponsor, la base elettorale dell'Udc poggia su tanti voti dei cittadini di fascia economica medio bassa. L’impresa della famiglia Blocher, Ems-Chemie (il cui patriarca Christoph Blocher fu anche Consigliere federale), è attiva nelle specialità chimiche, conta un fatturato di oltre due miliardi di franchi generato da oltre 3mila dipendenti e la sua sede principale è nel Canton Grigioni. L’anno della terribile pandemia, il gruppo ha versato ai suoi azionisti 468 milioni, il doppio di quanto abbia retribuito l’insieme dei suoi dipendenti (213 milioni). Il capitale ha dunque guadagnato due terzi dell’intero profitto aziendale, mentre il rimanente terzo è finito alla forza lavoro. Le figlie di Christoph, detenendo quasi il 71 per cento delle azioni, lo scorso anno in soli dividendi si sono intascate 331 milioni di franchi. Centoventi milioni in più dei salari di tutti i dipendenti. L’attualità della contrapposizione di classe in salsa elvetica nel ventunesimo secolo. Entrando nel dettaglio, si scopre che ogni dipendente di Ems Chemie genera mediamente una cifra d’affari di 715mila franchi o, se preferite, un utile netto aziendale di 172mila franchi. All’azienda, quel medesimo dipendente medio, costa 84mila franchi all’anno. La forza lavoro riceve la metà del profitto che genera. Il plus valore rubato alla classe operaia, per dirla alla Karl Marx. I dati sopracitati sono stati estrapolati dall’interessante studio sugli scarti salariali in Svizzera pubblicato ogni anno dal sindacato Unia (versione francese). L’azienda della famiglia Blocher non ha uguali nelle 37 imprese più importanti del paese, analizzate nello studio. Al pari dello scorso anno, Ems Chemie guida la classifica della ripartizione inegualitaria tra lavoro e capitale. Solo altre tre imprese versano più dividendi di stipendi (Partners Group, Swiss Re e Nestlé). Mediamente invece, le imprese versano agli azionisti un terzo di quanto diano agli operai. Ma la diseguaglianza assume forme diverse. Dallo studio si evince che la forbice tra la retribuzione dei manager e degli impiegati del gruppo è cresciuta anche lo scorso anno, attestandosi mediamente a 1 a 137. In cima alla lista, la retribuzione di 14,6 milioni del CEO Severin Schwan del gigante farmaceutico Roche che superava di 298 volte il salario più basso che Roche corrisponde in Svizzera. In altre parole, una persona impiegata presso Roche dovrebbe lavorare 298 anni per raggiungere la retribuzione annua di Schwan. Accanto a lui, altri tre CEO hanno ottenuto oltre 10 milioni di franchi nel 2020: Sergio P. Ermotti dell’UBS (13,3 milioni), Ulf Mark Schneider di Nestlé (10,7 milioni) e Vasant Narasimhan di Novartis (10,4 milioni). I salari più bassi versati nei gruppi presi in esame corrispondevano a un salario mediano di 3939 franchi (per 13 mensilità). In altre parole, nella metà delle imprese il salario più basso era inferiore a 4000 franchi, una somma sufficiente per sopravvivere, non vivere dignitosamente, in Svizzera. Tornando alla retribuzione del capitale sotto forma di dividendi, da rilevare che 14 delle imprese esaminate hanno beneficiato di aiuti statali sotto forma di indennità per lavoro ridotto. Ciò non ha impedito loro di distribuirsi dei dividendi, per un totale complessivo di 8,2 miliardi di franchi. Collettivizzare i costi e privatizzare i profitti. Due di loro, Lindt & Sprüngli e Straumann, hanno proceduto a dei licenziamenti. Una, Schindler, li aveva annunciati lo scorso anno e oggi li sta mettendo in pratica, anche in Ticino dove è prevista la soppressione di un'ottantina di posti di lavoro. Nella parte finale dello studio, gli autori s’interrogano su chi abbia pagato il prezzo maggiore della pandemia. Risposta scontata, ma vederla riassunta nelle nude cifre, impressiona ugualmente. Con l’indennità del lavoro ridotto all’80%, in base ai calcoli sui salari mediani dei rami toccati, i lavoratori hanno subito una perdita quantificabile a 2.6 miliardi di franchi. Cinque rami professionali hanno fatto ricorso al 40% delle 360 milioni di ore di lavoro ridotto richieste alla cassa disoccupazione. Nella ristorazione, il settore che più di tutti ha usufruito dell’indennità, la metà dei dipendenti percepisce un salario lordo inferiore ai 4'062 franchi. Durante il lavoro ridotto, ricevevano 3'250 franchi. A pagare il prezzo maggiore, perché maggiormente attive nei rami più toccati, le donne, spesso assunte a tempi parziali e come tali indennizzate. Riassumendo, lo studio di Unia sugli scarti salariali durante l’anno pandemico, ben evidenzia quanto di fronte al virus non si era tutti sulla stessa barca. C’era chi viaggiava su lussuoso yacht e chi si aggrappava alla zattera. «Dobbiamo combattere questa crisi in maniera solidale affinché nessuno sia lasciato indietro e cada nella povertà. È tempo che i manager e gli azionisti privilegiati delle imprese svizzere siano responsabilizzati. Questo compito incombe alla politica, la sola in grado d’influenzare le conseguenze della pandemia» conclude lo studio. |