È una delle valli abitate più alte e ricche della Svizzera, l’Engadina. Quando si è lassù, nelle strade di St.Moritz, si vede appena giù in basso dove abitano le persone meno ricche, lungo la frontiera italiana. Da un lato la Val Bregaglia, dall’altro la valle di Poschiavo. Giacometti abitava nella prima, Marco Camenisch nella seconda. L’uno e l’altro hanno conosciuto la guerra fredda e il suo modello locale, la glaciazione svizzera. Giacometti è partito per Parigi, Camenisch non è andato più in là di Zurigo. La similitudine della loro storia non si ferma qui. Ho visitato a Stampa il cimitero dove c’è la tomba di Giacometti. Ho preso l’autopostale che scende dal passo del Maloja. Le grandi tombe sono di quelli che hanno avuto successo, diventati professori alla nostra scuola politecnica o banchieri. Lungo il muro gli ammiratori di Giacometti che passano di là hanno preso l’abitudine di aggiungere un piccolo sasso sulla modesta tomba di pietra. Un semplice gesto al nostro scultore dissidente. Sono andato a Brusio, sulla tomba del padre di Camenisch, che era doganiere. La valle di Poschiavo è un po’ più larga, il sole cala più tardi, il cimitero è posto su un pendio, su più piani, ogni tomba esattamente identica alle altre. Sulla tomba del doganiere, morto nel 1989, un mazzo di margherite appassisce lentamente. È là che Marco è stato visto libero per l’ultima volta. Era venuto due mesi dopo la sepoltura a raccogliersi sulla tomba del padre. Aveva creduto che la sorveglianza dei poliziotti e dei doganieri attorno al cimitero si fosse un po’ allentata. Aveva seguito, dall’Italia su per la montagna, il sentiero dei contrabbandieri. Come Farinet nel romanzo di Ramuz. Ma un altro doganiere l’avrebbe riconosciuto e le cose sarebbero andate per il verso sbagliato. Almeno questo è quanto la nostra giustizia crede di aver capito. Al tempo della guerra fredda in Svizzera, i comunisti erano scacciati dall’università, come Bonnard, i traditori incarcerati, come Jeanmaire. Ma cosa fare dei dissidenti, quelli che non volevano allinearsi né con Mosca né con la Casa Bianca? Li si sorvegliava da vicino, li si lasciava partire per Parigi, ma quando li si prendeva con le mani nel sacco, li si puniva in modo esemplare. È quanto è capitato al giovane Marco, che allora non aveva trent’anni. Siccome aveva sistemato, nel 1979, alcuni petardi contro la lobby dell’energia nucleare nei Grigioni, era stato condannato a dieci anni di prigione. Nessuno se lo aspettava. Persino la stampa zurighese si era indignata. Ciò che ovunque, negli Stati Uniti come in Europa, costava agli antinucleari militanti multe simboliche e condanne con la condizionale, a Marco è costato dieci anni di detenzione. Un esempio. In un campo deserto, aveva tentato di abbattere il pilone di una linea ad alta tensione. Il pilone non era crollato. L’azione serviva solo per accompagnare un comunicato molto pedagogico che spiegava i rischi che il nucleare faceva correre agli abitanti del pianeta. All’epoca, non c’erano stati né gli incidenti di Three Miles Island né di Cernobyl, la lobby nucleare non aveva altra intenzione confessata che il bene dell’umanità. I suoi nemici erano accusati di voler ritornare all’età della pietra. Il pilone della Nok non era caduto, ma due anni più tardi esatti, il 12 novembre 1981, quando Marco marcisce in prigione, altri antinucleari si erano incaricati di abbattere quel pilone d’angolo recalcitrante. Applausi beffardi fin nelle sale delle redazioni che avevano ricevuto un comunicato firmato: do it yourself. Il primo processo Camenisch resta una vergogna della nostra giustizia. Dieci anni di galera quale esempio: tipico di questa Svizzera incapace di proporre un altro futuro alla sua gioventù oltre la guerra fredda perpetua. A Regensdorf, Camenisch è rinchiuso con la banda dell’Alfa rossa, esponenti del grande banditismo internazionale. Nel dicembre 1981, ne approfitta per seguirli nella loro evasione. Ma va molto male, una guardia resta sul terreno. Marco è “libero”, se così si può chiamare la clandestinità perpetua alla quale è condannato. Vorrebbe rivedere i suoi, è impossibile, i poliziotti sorvegliano in permanenza la casa dei genitori. I doganieri, anche, perché appunto il villaggio è posto sulla frontiera italiana. Il giorno del funerale, la polizia invade il cimitero e il giardino del pastore, proprio accanto, io l’ho visto. Non si diffida mai abbastanza dei pastori! Marco aspetta due mesi per visitare il piccolo cimitero a piani. Quel giorno è stato veramente lui a sparare su colui che aveva sostituito suo padre per custodire le nostre frontiere? Due anni più tardi, in Italia, Marco è arrestato, accusato di essersela presa ancora una volta con un pilone dell’alta tensione. Di nuovo in prigione, pesante condanna, poi l’estradizione e questo ultimo processo in Svizzera. Il tempo per Marco si è fermato nel mezzo della guerra fredda. Questa volta contro di lui si richiede la reclusione a vita. Ma chi è dunque il giudice d’istruzione che ha preparato questo processo con tanto accanimento? Niente meno che la figlia di colui che rappresenta la lobby nucleare. La Bezirksanwältin Claudia Wiederkehr non è forse la figlia di Peter Wiederkehr, direttore generale della Nok dal 1993 al 2002, dopo essere stato membro del governo zurighese dal 1975 al 1993? Nella tragedia greca, chi esegue una vendetta agisce sempre per tradizione famigliare. Guai ai vinti! E già si prepara la vendetta della vendetta: la settimana scorsa a Zurigo, gli amici di Marco hanno devastato un trasmettitore televisivo. Un milione di danni. Se un giorno, prima di morire di cancro ai reni, Marco uscirà di prigione, andrà senza dubbio a vedere la tomba di suo padre, il doganiere, per deporre un’altra margherita. Se avrà ancora un po’ di forza, lo immagino sulla tomba di Giacometti. Marco deporrà il sasso che aveva in tasca e con il quale credeva di far tremare la lobby nucleare e un paese rimasto di ghiaccio. * Daniel de Roulet è uno scrittore svizzero, ora residente in Francia. Questo articolo è stato pubblicato venerdì scorso sul sito internet www.largeur.com. La traduzione in italiano è a cura di Edy Zarro, la pubblicazione su area è stata autorizzata dall’autore.

Pubblicato il 

11.06.04

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