Cambio franco-euro, i perdenti sono sempre gli stessi

Una legge economica mortifera corre ovunque: se hai un problema la prima operazione da intraprendere è una compressione o una riduzione dei salari. In tal modo, contenendo o diminuendo il costo del lavoro, salvi la competitività, continui a vendere e a fare profitti. E, si aggiunge, assicuri occupazione e investimenti (i profitti sono sempre rappresentati come futuri investimenti nell’economia reale e non… nella finanza).


Tutti i paesi in crisi della zona euro si sono lanciati nelle politiche cosiddette di competitività-costo per riequilibrare i conti e attirare investimenti. Il costo del lavoro di un salariato greco è diminuito in termini reali del 15,4 per cento in due anni. Un caso estremo, si dice (che ha provocato il capovolgimento politico di questi giorni). Lo stesso metodo è però stata applicato dovunque: 3 per cento in meno per i lavoratori italiani, 4 per i portoghesi, 5 per gli irlandesi, marcia sul posto per i francesi…L’aspetto assurdo è che adottando tutti la stessa politica, è un tragico gioco a somma zero. Anzi, ha peggiorato la situazione tagliando le gambe alla domanda interna, accrescendo la disoccupazione, non migliorando i conti. Perché il costo del lavoro non è solo un costo, ma è un reddito per i salariati e le loro famiglie, sia se lo si consideri come reddito disponibile (generatori di domanda di beni) sia come parte che finanzia le assicurazioni sociali (disoccupazione, invalidità, pensioni).


Quanto sta capitando ora in Svizzera dopo la decisione della Banca Nazionale di abbandonare la soglia di 1,20 fr. per un euro, generando problemi di competitività verso l’esterno (maggior costo per le esportazioni) o all’interno (maggiori costi per il turismo), sta producendo rivendicazioni a catena da parte degli ambienti imprenditoriali per contrastarne gli effetti negativi. Non è una sorpresa se, imbevuti della stessa dottrina economica imperante in Europa, il costo del lavoro diventa il nemico da abbattere. In due modi: l’uno, minaccioso, che prospetta licenziamenti; l’altro, subdolo, che invita lavoratori e sindacati a rendersi “responsabili” non pretendendo più nulla, che prospetta salari in euro, che invoca la disoccupazione parziale con l’intervento finanziatore dell’ente pubblico.
Nel 2011, quando la pressione sul franco divenne insistente, la Confederazione sborsò 870 milioni di franchi, di cui 500 per sostenere il ricorso alla disoccupazione parziale. Oggi il Consiglio federale introduce ancora il sostegno alla disoccupazione parziale. Gli ambienti imprenditoriali potrebbero però persino uscire rafforzati dalla situazione in altro modo. Si sono precipitati verso due direzioni: la prima è quella di realizzare senza perdita di tempo la riforma della fiscalità delle imprese che ridurrà sensibilmente le loro imposte e aumenterà utili e profitti, impoverendo ovviamente in maniera sensibile le disponibilità degli enti pubblici; la seconda sarà quella di rinunciare subito ad una serie di progetti già avviati che disturbano o non piacciano agli ambienti imprenditoriali che governano la politica, perché ritenuti costosi e di intralcio alle loro libertà (legge sui servizi finanziari, nuove prescrizioni sulle società anonime, strategia energetica 2050, revisione del diritto sull’ambiente che pone condizioni all’economia, proibizione delle nuove centrali nucleari). I beneficiari, che amano sempre mettersi la veste di perdenti e sacrificati, sono sempre quelli. Anche i perdenti, quelli veri, sono sempre quelli.

Pubblicato il

29.01.2015 21:31
Silvano Toppi