Quest’anno Gesù Bambino è venuto a trovare anche me. In ufficio. Intendiamoci, non che mi abbia portato un aumento di stipendio e nemmeno una gratifica straordinaria… però mi ha portato un paio di cose che aspettavo da tempo: una bella stampante a colori ed un headset per il telefono. Il mio GiBi è grande, grosso e ha una faccia da responsabile dell'informatica e affini. Ok, la stampante a colori me l’ha fatta aspettare quattro anni, e non me l'ha portata nemmeno a Natale ma qualche mese prima. Però, come GiBi, è magico: quando hai un problema, glielo spieghi, gli si illumina lo sguardo, ti guarda e ti dice “Boh?”. Lo adoro. L’headset che mi ha procurato, poi, è una roba seria. Mica un affarino da cinque soldi! Sembra un fiore: la base ricorda vagamente una foglia, dalla quale spicca uno stelo di un dieci centimetri su cui si colloca la cuffietta col microfono. Quando rispondi al telefono, lo stelo (di plastica trasparente) si illumina e lampeggia di un bel rosso. In quel momento ti senti a metà strada tra una popstar ed un astronauta. Ed a metà strada tra una popstar ed un astronauta devono sentirsi quotidianamente le migliaia di persone che lavorano nei “call center”. Con la differenza che loro non godono della fama e delle ricchezze né dell'uno né dell'altro. Quando chiamate per avere un orario di un treno, un numero di telefono, un’informazione sull’uso della stampante, per ordinare un vestito, reclamare per un servizio, ecc. ecc., a colpo sicuro andate a parare in uno di questi servizi. Allo stesso modo, quando ricevete le famigerate telefonate di telemarketing (vendita telefonica, sondaggi e quant’altro) avete a che fare con operatori di un call center. Le esigenze poste a chi vi lavora superano ampiamente i compiti di un centralinista che riceve e smista le chiamate. Lavoratori e lavoratrici devono possedere un numero considerevole di capacità, tante e tali che possono tranquillamente definirsi degli specialisti. Sui call center sono stati spesi fiumi di inchiostro. Le forme di assunzione sono state spesso criticate per il loro carattere “atipico” (contratti a tempo parziale, di durata determinata, su chiamata, e via di seguito), così come le condizioni salariali (basse), ed i tentativi di dumping (minacce seguite dai fatti di “esportare” i call centers all’estero dove impiegare manodopera a più basso costo). Recentemente anche gli esperti dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro hanno attirato l'attenzione sulle condizioni di lavoro dei dipendenti dei call centers. In un rapporto pubblicato a fine 2005, nel quale vengono esaminati i rischi fisici emergenti per la salute, i lavoratori di questi servizi telefonici vengono designati come gruppo a rischio. Secondo gli esperti, diversi fattori d’esposizione concorrono a creare situazioni pericolose per la loro salute: la postura (sempre seduti), il rumore di sottofondo (lavorano in open space o condividono cubicoli con altri operatori), la qualità del materiale (l’headset in primis), la ridotta padronanza del proprio lavoro (non possono controllare né la quantità né il contenuto delle telefonate), la pressione sui tempi di lavoro (i tempi di evasione delle chiamate sono predefiniti), la complessità delle prestazioni richieste (devono sapere tutto), lo scarso sostegno da parte dei colleghi e dei superiori gerarchici (i primi hanno paura, i secondi la nutrono), l’insicurezza del proprio posto di lavoro e la paura della disoccupazione (le loro condizioni di lavoro precarie). Ecco perché non perdo la pazienza quando chiamo un call center.

Pubblicato il 

20.01.06

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