Calida, solo la qualità la può salvare

I settori industriali del tessile, dell'abbigliamento e delle calzature sembravano in via d'estinzione. Sono certamente i grandi perdenti dei mutamenti strutturali degli ultimi due decenni. In Svizzera non rappresentano più che lo 0,5 per cento dell'occupazione totale e lo 0,4 per cento del valore aggiunto. Il ramo tessile e abbigliamento impiegava nel 2005 16 mila 300 collaboratori, soltanto l'1,7 per cento degli addetti dell'industria a livello nazionale. Si ricorderà in particolare in Ticino tutte quelle piccole imprese localizzate nei pressi della frontiera con l'Italia, per sfruttare una manodopera a minor costo soprattutto femminile. La maggior parte di queste ditte sono scomparse e con loro più della metà degli impieghi. Assistiamo invece a un fenomeno in controtendenza, ossia ditte di qualità e grandi nomi della moda internazionale come Ermenegildo Zegna, Akris, Armani, Hugo Boss e Gucci che scelgono il Sottoceneri per le loro sedi logistiche e produttive.
Nella produzione di vestiario e scarpe, nonostante la concorrenza a basso costo est-europea e asiatica, le imprese migliori sopravvivono rafforzando i loro marchi e la Fashion Valley ticinese trova sbocchi anche sui mercati d'esportazione. In sintesi, come dimostra questo dossier, le imprese innovative che sanno anticipare le tendenze della domanda possono crescere in modo profittevole, garantendo gli impieghi.
Secondo l'economista Sara Carnazzi-Weber, responsabile per le analisi regionali del Credit Suisse, «la Svizzera ha senz'altro ancora un futuro nell'ambito industriale. Questo settore non andrà quindi completamente a sparire come si può ipotizzare visto il ritmo della terziarizzazione odierna. Sarà un futuro limitato ai settori che sono riusciti a posizionarsi negli ambiti della produzione industriale innovativa, a forte creazione di valore aggiunto. È un risultato che d'altronde si è visto già negli ultimi 15-20 anni: sono gli unici settori che sono stati in grado di creare occupazione nel secondario in Svizzera».
Sarebbe dunque un vero peccato considerare con rassegnazione il futuro di questo importante comparto produttivo, ricco di forti tradizioni aziendali; magari attratti da una terziarizzazione ad ogni costo, che per la sua flessibilità e mobilità potrebbe anche avere basi labili. Pure l'industria dell'abbigliamento e delle calzature richiede un'alta professionalità, l'innovazione tecnologica e un forte componente terziaria. Può rimanere la fonte di un'occupazione stabile e promettente.

Per meglio inquadrare il fenomeno di delocalizzazione produttiva a partire dagli anni novanta, l'esempio di un gruppo simbolo dell'abbigliamento svizzero come Calida è probante. Progressivamente ha trasferito tutta la lavorazione all'estero, dapprima con filiali proprie e poi sempre più affidandosi a imprese fornitrici partner.
A Sursee nel canton Lucerna gli stabilimenti Calida sono in parte vuoti, perché ormai sovradimensionati. È la conseguenza dell'abbandono successivo delle 7 fabbriche svizzere. Da ultime quelle situate ai confini elvetici, per approfittare della forza lavoro frontaliera: La Chaux-de-Fonds ha chiuso senza trovare acquirente, mentre Chiasso è stata scorporata, con un tentativo di Management Buyout. Su iniziativa dell'ex-direttore Franco Carrera, la neocostituita ditta Pacaro ha cercato di sopravvivere con meno addetti, lavorando in subappalto per Calida. Un modello di indipendenza durato pochi anni e concluso con la scomparsa di Carrera. Analogo è stato l'andamento nelle filiali portoghese e indiana. Entrambe sono state abbandonate, anche se quella portoghese passata sotto il controllo dei suoi dirigenti continua a produrre per Calida.
Alla fine del secolo nell'ultima fabbrica elvetica del gruppo a Sursee si sono giocate le ultime carte di una produzione di massa a costi svizzeri. Oggi restano i pochi impieghi legati all'allestimento dei prototipi delle nuove collezioni. Il quartiere generale conta 319 collaboratori su un totale di 1'377 a livello del gruppo.
Dopo una lunga stagione di perdite, Felix Sulzberger è stato l'artefice della svolta. Calida ora produce a costi competitivi, è tornata agli utili anche se le vendite sui due principali mercati Svizzera e Germania sono stagnanti. Anzi, ha avviato una fase espansiva grazie all'acquisizione della francese Aubade: il fatturato si aggirerà sui 220 milioni. Soprattutto il marchio Calida si è aggiornato alle nuove tendenze della moda.
La diagnosi di Felix Sulzberger, Ceo di Calida è impietosa. «Negli anni novanta Calida non ha percepito i cambiamenti strutturali in atto e ha reagito in ritardo. Alcuni investimenti non erano opportuni, qui a Sursee per esempio nella maglieria. Quando ha chiuso le altre fabbriche elvetiche, ha trasferito la produzione all'estero sotto la propria regia e non ha cercato dei partner qualificati. Troppo tardi ci si è occupati del design e delle strutture di vendita. Dal 2001 abbiamo avviato una svolta strategica con la concentrazione sul marketing, la modernizzazione del marchio e delle collezioni, la focalizzazione sui negozi monomarca Calida, fondamentali nel rapporto alla clientela. Attualmente solo un piccolo segmento dell'offerta è assicurato dalla nostra fabbrica ungherese; la gran parte è affidata in Portogallo, Europa dell'est e Cina a imprese di confezione».
Dalla metà degli anni novanta, la produzione in proprio si è dunque passo a passo concentrata a Rajka in Ungheria. Vi sono state trasferite tutte le fasi della fabbricazione: negli ultimi mesi anche il taglio, l'ultima competenza che era rimasta a Sursee. Oggi la fabbrica magiara impiega 336 collaboratori. La lavorazione è possibile a dei costi che reggono il confronto con le dinamiche del mercato mondiale. I salari diretti e indiretti sono inferiori a novecento franchi mensili e le prestazioni della manodopera femminile sono valide.
Per Sulzberger, «l'Ungheria è una piattaforma ideale. Da Rajka si possono attivare le lavorazioni in Romania, Bulgaria e Ucraina, paesi favorevoli nel rapporto qualità-prezzo. Il vantaggio rispetto ai paesi asiatici è che le strutture sono più agili. In tre giorni possiamo operare i cambiamenti richiesti dalle variazioni della domanda. In Estremo oriente il processo è più lungo».
Calida ha abbandonato l'immagine conservatrice del suo marchio e mira a un look giovane e sexy, nella gamma medio-alta della biancheria intima. Deve vendere ai prezzi, tendenzialmente calanti, che il cliente europeo è disposto a pagare. L'80 per cento della merce è d'origine europea, il 20 per cento proviene dal partner cinese Tanitex, che paga la manodopera fino a 2 dollari e mezzo al giorno. Tanitex opera a Dongguan nella provincia di Guandong, sulla costa meridionale cinese, una sorta di Eldorado del capitalismo globalizzato. In una regione di basse retribuzioni, 55 ore settimanali e regole contrattuali approssimative, è comunque da considerare un'impresa modello per gli standard produttivi e le condizioni di lavoro e salariali. E non lontano altri paesi potrebbero un giorno proporsi come fornitori a condizioni ancora più vantaggiose: Vietnam, Laos e Cambogia.
«Il problema non è dove si produce, ma come e secondo quali standard qualitativi», afferma Sulzberger. «Oggi è possibile un po' ovunque nel mondo. Ma senza una logistica e una pianificazione adeguate, l'outsourcing può rivelarsi una catastrofe. Bisogna sorvegliare tutto il processo, dal filato fino al controllo finale. La nostra filosofia è che si può andare in Cina: le imprese lavorano bene e in modo preciso. Ma è indispensabile un management complessivo della qualità».
Sursee mantiene appunto le funzioni logistiche centrali, in primo luogo l'afflusso delle forniture di tessuto, prodotto in Europa e raffinato in Svizzera. Inoltre la gestione di tutta la merce finita proveniente dalle diverse fabbriche fino alla distribuzione capillare verso i punti di vendita nel mondo. Ma soprattutto vi sono concentrati il dipartimento design e sviluppo dei modelli delle due collezioni annuali, e la coordinazione dell'intero processo produttivo. 86 posti di lavoro che sono il perno del know-how aziendale. Un potenziale che si sta rafforzando con l'integrazione della francese Aubade, un marchio di lusso, decisamente più glamour. Anche Aubade ha la sua centrale a Parigi e fabbriche nel sud della Francia e in Tunisia.
Per Sulzberger, «è importante mantenere a Sursee le competenze tecnologiche e il design, dopo che abbiamo cessato le attività di maglieria e confezione. Ci occupiamo della formazione e del management e inviamo i nostri specialisti nelle imprese fornitrici. Se non lo facessimo, vi sarebbe il pericolo di impoverire il nostro sapere industriale e ciò sarebbe a lungo termine fatale».
Del resto delocalizzare non soddisfa sempre le esigenze di qualità e flessibilità. Secondo uno studio del 2005, un terzo delle imprese elvetiche che scelgono l'outsourcing rimpatriano parte dei processi produttivi: un insourcing di ritorno.
Il dipartimento ricerche economiche del Credit Suisse pubblica una panoramica annuale dei settori industriali svizzeri. Responsabile delle analisi regionali, Sara Carnazzi-Weber, conferma tale fenomeno e sottolinea le chances tuttora da cogliere. «L'industria dell'abbigliamento, del tessile e delle calzature ha ancora un potenziale di crescita in Svizzera. Solo però nei settori che sono stati in grado negli ultimi decenni di trasformarsi verso le attività ad alta creazione di valore aggiunto, verso prodotti innovativi d'alta gamma, tessuti high-tech. Sono i settori che oggi come oggi esportano la maggior parte della loro produzione all'estero e che si sono mostrati competitivi».


* adattamento di un servizio realizzato per la trasmissione "Micromacro" della Televisione svizzera di lingua italiana di giovedì 20 aprile 2006, www.rtsi.ch/micromacro

La cultura industriale delle frontaliere

La dimostrazione del potenziale dell'industria del tessile giunge dal Mendrisiotto, cresciuto con le filande e le manifatture di maglieria, biancheria e confezione. All'epoca del lavoro in fabbrica e a domicilio con forza lavoro svizzera, hanno fatto seguito i decenni in cui è diventato predominante il ricorso ai lavoratori e alle lavoratrici frontalieri. Negli ultimi anni, l'intreccio di ditte ricche di tradizione e di nuovi insediamenti costituisce un tessuto industriale tuttora rilevante.
Nel cuore di Mendrisio l'ultimo insediamento industriale è la camiceria Bruli: prossimamente si trasferirà in uno stabilimento della piana di San Martino. Nella ex-fabbrica di sapone, si è scritta la storia secolare delle camicie Bloch e poi Eigenmann e Lanz. Un ramo che per decenni è stato il fiore all'occhiello del distretto. L'impresa familiare, diretta da Herbert Brülisauer con i figli Marco e Paolo, è una delle poche che hanno saputo mantenersi sul mercato, dopo che Fehlmann e da ultima Cavalco hanno chiuso i battenti.
«Il Ticino ha sempre avuto la grande tradizione della camiceria», ricorda Herbert Brülisauer. «Eravamo tantissimi, ma purtroppo siamo rimasti in pochi. Il mercato è cambiato e oggi è redditizio solamente il prodotto di lusso. Abbiamo dovuto cambiare completamente la nostra impostazione, cercare clienti specializzati e puntare sull'esportazione. Altrimenti, con un prodotto di livello medio, non si sarebbe potuto continuare».
Alla fine degli anni ottanta la ditta contava ancora 150 operaie. Attualmente sono una sessantina. Alcune mansioni sono state automatizzate: prossimamente verrà introdotto il piazzamento automatico per il taglio, che assicura flessibilità, precisione e costi inferiori. Ma l'esecuzione manuale con cura millimetrica resta fondamentale. Mentre molte manifatture, che producevano per terzi, sono scomparse, il marchio Bruli ha invece saputo preservare la sua autonomia.
La grande abilità manuale delle lavoratrici lombarde spesso si tramanda da madre in figlia. Fondamentale è pure la fedeltà all'impresa, che a sua volta si incarica della loro riqualifica in funzione dei propri standard. Sono i presupposti per un lavoro di precisione: l'allineamento delle righe, l'eccellenza dei colletti e delle finiture.
«Dobbiamo cercare le nicchie nel mercato e non la grande distribuzione», ribadisce Brülisauer. «Il mercato si è completamente diviso in due segmenti e non c'è più la fascia media: c'è la bassa o l'alta gamma. Noi dobbiamo cercare di essere in alto. Allora la possibilità di sopravvivere è data».
Il confronto costante con la concorrenza est-europea e asiatica è obbligato anche per una piccola azienda. Tuttavia al momento un trasferimento non è in discussione. Anzi Herbert Brülisauer crede nella Fashion Valley ticinese. «Peccato che non ci siano anche altri che pensano la stessa cosa. Perché noi dobbiamo fare il prodotto che gli altri paesi meno sviluppati non possono offrire, poiché mancano di una cultura industriale. Noi abbiamo tale cultura, ma bisogna lavorare a questo vantaggio ed essere innovativi. È quello che conta».
Certo gli anni in cui il Ticino era considerata l'Hong Kong della Svizzera sull'asse nord-sud sono svaniti. Ora bisogna ritagliarsi delle nicchie in un contesto segnato dall'emergenza dell'industria dell'Est. Il vantaggio relativo sul piano salariale resta una fattore centrale legato alla frontiera, ma i rapporti di lavoro sono regolamentati dalle convenzioni collettive di lavoro.
L'economista del Credit Suisse Sara Carnazzi-Weber evidenzia i cambiamenti in atto anche su questo piano. «Chiaramente l'industria dell'abbigliamento ticinese per decenni ha approfittato del bacino di manodopera frontaliera, poco qualificata e a basso costo. È stata la ragione per cui il settore si è sviluppato per decenni in Ticino. Oggi notiamo che il frontalierato sta cambiando volto, si sta orientando verso delle attività qualificate e quindi sta rispondendo proprio ai bisogni di un nuovo tipo di industria in Ticino».

Pubblicato il

09.06.2006 04:00
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