«Ma non morire di domenica, in questo giorno da buttare, tutto va bene, guarda pure il sole, aspetta ancora una domenica». Così conclude Antonello Venditti la sua celebre canzone “Buona domenica”. In mente ha la domenica qualsiasi di una ragazza qualunque che, se muore, muore d’amore. In attesa della telefonata di un lui che non si fa mai sentire. Ma poco male, a sera ci si può consolare che fra sei giorni ne arriva un’altra, di domenica. Una giornata in cui il tempo si sospende, in cui si è liberi di uscire dalle costrizioni della vita per pensare a sé, agli amici, ai propri cari, alla famiglia. A quel che ci pare, ma non al lavoro. Una giornata in cui quasi tutti, dalla ragazza innamorata a sua madre commessa in un negozio, sono liberi di gestire il proprio tempo per spenderlo come e con chi gli pare. Una libertà che chi sostiene l’apertura dei negozi nelle stazioni ferroviarie, oggetto su cui si voterà il prossimo 27 novembre, vuole limitare. E, senza vergognarsi, dice di volerlo fare in nome degli ideali liberali. È il caso del presidente del Partito radicale svizzero Fulvio Pelli che, su Opinione liberale del 13 ottobre, così scrive: «Ci battiamo da sempre per la libertà e la responsabilità dell’individuo. Nel caso concreto lottiamo per la libertà dei consumatori e dei lavoratori. Devono essi poter decidere dove e quando voler fare gli acquisti, dove e quando lavorare». Peccato che Pelli ragioni facendo i conti soltanto con i suoi ideali, non con la realtà. È nei suoi ideali che le lavoratrici e i lavoratori, in particolare quelli del settore della vendita, sono liberi di scegliere dove e quando lavorare. Nella realtà sono costretti ad accettare il lavoro che c’è, dove e quando c’è. È un avvocato come Pelli che può decidere di lavorare la domenica per andare a sciare il mercoledì. Una commessa, se il suo datore di lavoro gli dice di lavorare la domenica, lo deve accettare, punto e basta. Magari per meno di 3 mila franchi al mese. Anche se quello è l’unico giorno che può passare con i figli. Perché la società è piena di disuguaglianze e di persone che non possono scegliere. Proteggere per legge il loro tempo è allora un vero atto liberale che permette a tutti e a tutte, allo stesso modo, di vivere il più possibile secondo le proprie aspirazioni. Oltretutto, concedere una deroga al divieto di lavoro domenicale soltanto per i centri commerciali costruiti attorno alle stazioni è un’evidente distorsione della concorrenza a danno di tutti gli altri negozi e centri commerciali: quanto di meno liberale ci si possa immaginare. Ma questo dimostra chiaramente qual è l’obiettivo di chi oggi dice di votare sì il 27 novembre: è quello di avere una settimana lavorativa di sette giorni, 365 giorni all’anno, per tutti. Noi non ci stiamo. Noi vogliamo che anche in futuro si possa ancora augurare “Buona domenica”. Siamo per una domenica in cui si sia liberi di fare quel che si vuole. Anche di morire d’amore. Ma non di lavoro.

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21.10.05

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