Buio sull'informazione

Chi ha rapito “le due Ahimsa”? Indymedia se lo chiede da settimane. Grazie alle due Ahimsa, cioé due hard disk (in parole povere: computer), erano attivi una ventina di siti web del network internazionale di informazione indipendente. Il sequestro è avvenuto il 7 ottobre in circostanze misteriose e il 13 le due Ahimsa sono state liberate senza che nessuna rivendicazione sia giunta a Indymedia. Cose che accadono, al tempo delle leggi anti-terrorismo. Dietro l’avventura del network Indymedia, nato a Seattle nel 1999 e presente oggi in 140 paesi, c’è un benefattore. Nella comunità indyana è noto come Jebba, di mestiere fa il programmatore e per passione destina una parte dei suoi guadagni a garantire la presenza in Rete di Indymedia. Jebba ha un contratto con il provider americano Rackspace, perché custodisca le due Ahimsa nella sua sede londinese. Un gioco di scatole cinesi che ha consentito per cinque anni di difendere la “pubblicazione aperta”, cuore e ragione di esistere di Indymedia: nella colonna destra del sito (anche detta “newswire”) chiunque può pubblicare testi, suoni e immagini. Anonimamente, senza rischio di censura o denuncia. Un equilibrio che si è rotto all’inizio di ottobre, quando agenti dell’Fbi si sono presentati nella sede texana di Rackspace con l’ordine di spegnere le due Ahimsa e consegnare gli hard disk. La notizia è rimbalzata freneticamente fra i continenti: all’improvviso sono scomparsi alcuni dei maggiori Indymedia del pianeta, da quello italiano a quello inglese, passando per molti siti americani. Laconica la comunicazione di Rackspace, vincolata dal provvedimento a mantenere assoluto riserbo sulla vicenda. Secondo il portavoce dell’Fbi Joe Parris, il sequestro sarebbe dovuto ad una rogatoria prevista dal Mlat, trattato internazionale di collaborazione giudiziaria anti-terrorismo. La richiesta sarebbe venuta da Svizzera e Italia. Curiosa la concordanza di pratiche sfoggiata nella vicenda dalle autorità italiane e svizzere. A Roma, i ministeri coinvolti giurano di “non saperne nulla” e giacciono in Parlamento le interpellanze di Verdi e Rifondazione. A Berna, l’Ufficio federale di giustizia suggerisce di rivolgersi ai cantoni, fanno spallucce Dipartimento di polizia e Procura federale. Fra nebbia e indiscrezioni, emergono alcune ipotesi. Nella Confederazione, la palma per l’azione censoria dell’anno spetterebbe alla Procura di Ginevra, che ha aperto un’inchiesta penale che potrebbe essere sfociata in una rogatoria. Il condizionale è d’obbligo, visto che i magistrati rifiutano di fornire spiegazioni. Solo il portavoce della polizia, Jacques Volery, dichiara gongolante: «Siamo stati noi, un’operazione possibile grazie alle buone relazioni con gli Usa». All’origine, una denuncia penale depositata da due poliziotti della Cellula che indaga sul G8 di Evian: «minacce a pubblico ufficiale» per le foto pubblicate sul newswire di Indymedia Nantes, che li vedono in borghese ad una manifestazione. Immagini accompagnate da un testo vagamente minatorio. Tanto rumore per nulla? La boutade è figlia di un braccio di ferro che va avanti da tempo nel cantone: la polizia aveva aperto le danze, pubblicando sul suo sito un “Wanted” fotografico di presunti “casseur”, con relativo invito alla delazione dei malcapitati. Poi è venuta la pagina-clone: sotto al logo “Police sans Gènes” (senza vergogna), una galleria con i volti degli agenti che parteciparono alla violenta irruzione al centro culturale Usine durante il G8. Hanno caschi e bandane, sono armati con manganelli fuori ordinanza. La pubblicazione su Indymedia Nantes dei ritratti dei due ispettori sarebbe allora la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma il loro avvocato Marc Oederlin nega di avere chiesto il sequestro del sito. Versione confermata dalla magistrata inquirente, Isabelle Cuendot: «Una rogatoria non può essere chiesta con questo capo d’accusa». Più complessa la situazione in Italia, dove varie Procure avrebbero aperto inchieste su Indymedia Italia. Anzitutto la Procura di Bologna: la magistrata Morena Plazzi indaga sulla Federazione Anarchica Informale, sigla che ha rivendicato l’invio di pacchi-bomba a Romano Prodi e ad altri esponenti di istituzioni europee. Dopo qualche esitazione, la Procura ha confermato di aver avviato una rogatoria per individuare gli autori di alcuni messaggi. Ma ha affermato di non aver chiesto l’oscuramento del sito. Indymedia Italia ha colto l’occasione per ricordare che negli hard disk sequestrati non ci sono i “log” di connessione al sito, ovvero i dati che consentono di localizzare un utente: gli inquirenti avrebbero potuto accedere dunque on-line, come un qualunque visitatore, alle pagine incriminate. O al limite intervenire per la copiatura degli hard disk. Altre Procure sono al lavoro per un messaggio che avrebbe «offeso la memoria dei carabinieri caduti a Nassirya» e per altre denunce: un elenco nutrito dove la fanno da padrone i deputati di Alleanza nazionale. Ma è difficile tenere il conto degli attacchi verbali che si starebbero oggi concretizzando, tale è stata dopo il G8 di Genova la corsa ai reati d’opinione, riesumati dal Codice Rocco di epoca fascista. Su tutte queste inchieste c’è il segreto istruttorio. E in tutte, potrebbe entrare il “microfono aperto” del newswire di Indymedia Italia. Tante ipotesi e nessuna certezza. Il fatto che nessuna delle autorità coinvolte rivendichi il “rapimento delle due Ahimsa” mette Indymedia in una condizione kafkiana: in assenza di un’accusa, impossibile ottenere informazioni sulla procedura in corso. D’altronde è un sequestro pieno di anomalie. Anzitutto giuridiche. L’inchiesta di Ginevra potrebbe avere dato luogo ad un intervento tanto brutale se nel fascicolo ci fosse anche “istigazione pubblica alla violenza”. Ma resta un’ipotesi, dato il silenzio del Procuratore capo Daniel Zappelli. Stessa musica per le inchieste italiane: non si sa molto e quel poco, non torna. Ma secondo indiscrezioni pubblicate dal quotidiano Il manifesto, la Procura di Bologna avrebbe deciso di non convalidare il sequestro e per questo le Ahimsa sarebbero state liberate. In tanto caos, si affaccia l’ipotesi che l’Fbi abbia “sopravvalutato” le richieste giunte da Italia e Svizzera. O forse, ne abbia “approfittato” per intervenire con la mano pesante.

Pubblicato il

22.10.2004 01:30
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