Bossi trafitto dalla sua spada

C'era una volta Alberto da Giussano con il suo spadone e c'era una volta "il leon che magna il teron". Pontida e Ponte di Legno, il sogno di un perverso 25 Aprile che avrebbe liberato il profondo nord dalla zavorra sudista, con un occhio all'Austria di Heider e l'altro rivolto alla Slovenia libera e liberista affrancata dal costo di quei selvaggi islamici del Kosovo.

Insomma, la Padania di Bossi, Maroni, Calderoli (quello della t-shirt con gli insulti a Maometto che scatenò una rivolta anti italiana a Tripoli), estesa ai territori dei trevigiani Gentilini (quello che ha tolto le panchine dai giardinetti per impedire ai "negri" di bivaccarvi) e dei sabaudi Borghezio (quello che buttava giù dal treno Torino-Milano le prostitute nigeriane). E il sogno si estendeva alla Liguria, all'Emilia, fino alla Toscana e alle Marche. Un'invasione contro natura per un progetto basato su microterritori blindati dentro un comunitarismo gonfio di individualismo proprietario (i dané, o sghei che dir si voglia) che si sente assediato dal nemico, cioè dallo straniero ("padroni a casa nostra"). Un incubo, impossibile da far vivere stabilmente come realtà per l'impossibilità quasi balcanica di unificare microcomunità egoisticamente blindate. E poi, dove s'arresta l'estensione della Padania e dove inizia la Terronia? Sempre a sud di chi risponde alla domanda, come capita nei Balcani, appunto.
Il compromesso impossibile tra il giustizialismo leghista e l'opportunismo liberista e corrotto berlusconiano è saltato in aria sotto i colpi della crisi economica. Entrambi i rais, Bossi e Berlusconi sono in crisi ed in crisi è il loro rapporto con i reciproci "popoli". Perdono consenso con le tasse che aumentano invece di diminuire e con l'imbroglio di un federalismo (il compromesso con il sogno secessionista) cancellato dai tagli agli enti locali, mentre "Roma ladrona" continua ad aumentare spese e potere. I leader leghisti a Roma sono vissuti come un paradosso dal popolo leghista e persino dai leader locali del Carroccio che devono rispondere alla base delle malefatte e dei colpi d'ascia del governo centrale. Bossi contestato o peggio ignorato nella sua Padania che gli nega ovazioni e voti se ne rende conto, prova a ridare energia e smalto a simboli ammuffiti, torna a parlare il linguaggio del rude guerriero, contro il "nano di Venezia" Brunetta e a giorni alterni contro quel Berlusconi che l'ha sdoganato e che deve a lui più d'un salvataggio dopo i tradimenti (nel tempo Casini e Fini). Ma i due rais sono legati a un doppio filo che trasformatosi in un cappio rischia di strozzarli entrambi.
Gli operai, da che mondo è mondo, sono più numerosi dei padroni anche nei territori del "piccolo è bello". Anche nel silos di voti leghisti gli operai, con il tempo, sono diventati tanti, orfani di una sinistra postideologica naufragata nel mare magnum dell'omologazione culturale ed economica alla destra egemone e attratti da chi diceva di difendere il territorio dal nemico, che non era più il padrone ma lo straniero. Orfani della sinistra ma non fessi, questi operai con la doppia appartenenza: alla Lega per quanto detto sopra e alla Fiom, o alla Cgil, che li difendeva da un padrone "che non si sa mai". E quando la crisi è esplosa, quando il padroncino magari leghista li ha licenziati, o i tagli al welfare del governo li hanno colpiti, quando per i figli non c'è stato più futuro, allora una delle due appartenenze è saltata. Immaginate quale.
Il legame del popolo leghista ha cominciato ad allentarsi quando il partito d'opposizione si è trasformato stabilmente in partito di governo, grazie all'alleanza contro natura con i berlusconidi. Buon governo, cattivo governo e anche malgoverno leghista che non si distingue dagli altri governi. Stessi vizi, stessa distanza da un popolo che non si può a lungo ingannare con folclore e sceneggiate e bandiere padane, rutti e corna, quando mancano asili nido, lavoro, i costi della sanità aumentano come le tasse, la cassa integrazione finisce. Se il leon invece del teron si mangia i suoi figli, anche i leoncini si incazzano. Il malcostume dei politici non si ferma certo alla sponda meridionale del Po, il grande fiume raccolto con l'ampolla per riti salvici da un Bossi afono e, bisogna dirlo, decotto, come il suo alleato di ferro è consumato dai troppi bunga bunga e comincia a fare un po' schifo anche ai montanari in camicia verde.
Anche il gruppo dirigente leghista si frantuma in uno scontro ormai aperto tra governisti aggrappati alla realpolitik e alla poltrona e tradizionalisti padani, cioè furbacchioni che tentano di salvare il salvabile mettendo in scena un patetico ritorno alle origini. Bossi tenta di ricoprire entrambi le vesti, canottiera nell'ingrato Cadore che non lo osanna più e giacchetta ad Arcore, ma il capo non è più quello di una volta. Festeggia il compleanno di Tremonti ma difende le pensioni per non prendersele nel Bergamasco. Chi tradisce il Carroccio non va, non torna, a sinistra che non si sa dove sia e cosa voglia, semplicemente abbandona le urne, si incattivisce, non vede alternative credibili. Cresce un sentimento di astio e sfiducia nel nord, a meno che, come a Milano, non si manifesti una speranza, una possibile alternativa all'individualismo proprietario che l'egoismo comunitaristico non riesce più a nascon-
dere.
La crisi, dunque, fa pulizia e riduce i sogni a incubi. Se salta il radicamento leghista nel territorio le bandiere verdi smettono di garrire al vento padano. Del resto, non è stato l'allontanamento dal territorio che ha svelato e moltiplicato due o tre decenni fa la crisi della sinistra italiana? La vittima, alla fine, è la stessa: la politica, vissuta come luogo di dominio e di esproprio delle scelte e della democrazia. Tutto ciò che ha a che fare con la politica viene vissuto come casta, e non c'è salvezza per nessuno. Eppure, in questo cimitero qualche segno di vita si avverte: nelle piazze, nelle urne con i referendum e persino con le elezioni amministrative. Non grazie alla "politica" ma fuori da essa, nonostante essa.

Pubblicato il

26.08.2011 03:30
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