Quando, a fine ottobre, alla vigilia delle gare sul ghiacciaio di Soelden, fu pubblicata su “Ski Racing” una grande intervista a Bode Miller, lo stupore fu generale: Bode auspicava un’apertura importante in materia di doping, affermando che l’uso di “epo” e steroidi avrebbero evitato molti gravi infortuni, specie nella fase finale della corsa, quando le gambe sono dure come pali e il fiato manca. Come dire: azzeriamo tutto. Quanto è stato detto negli ultimi anni non vale, ma il doping non causa gravi e ampiamente provati danni alla salute? «Certo», risponde Bode, «ma io ho visto molti atleti sui 50 anni che camminano a fatica, con la schiena a pezzi e l’artrosi alle ginocchia». Vero, vale in parte anche per i giocatori di calcio di 4a divisione a causa dei campi ignobili. La presa di posizione del grande Bode ha causato sconcerto anche per la sua storia personale: figlio di “hippyes” degli anni Sessanta del secolo scorso, il ragazzo è stato cresciuto in pieno bosco in una casetta tirata su tronchi di pino vicino a un ruscello che serviva da acqua corrente e poco lontano da una cascatella che serviva a generare elettricità per 3 ore al giorno. Miller allo stato brado insomma, secondo un mito che in America, nell’ottocento, aveva fatto scuola. E di conseguenza faceva di Miller il grande e unico campione che è, fuori da ogni schema. Ma questa volta è uscito troppo dal suo schema, suscitando un vespaio. Interessante la sequenza delle reazioni: dapprima lo sponsor, un famoso produttore di pasta italiana: come si fa a ingaggiare come “testimonial” un tipo che gira l’Europa in una “roulotte” chiamata “Bodemobile” con un suo amico improvvisato cuoco, se poi costui invece di celebrare le prodigiose virtù della pasta “bio” celebra l’“epo” e il “nandrolone”? “Parleremo con lui all’inizio all’inizio della stagione vera e propria a Lake Louise” vedremo se è stato male interpretato. E giù comunque bacchettate preventive, anche dall’agenzia mondiale antidoping Wada e dalla Fis che prima di venire al dunque hanno mandato in avanscoperta la vispa e brillante Pernilla Wiberg, una che a domanda “lei ha mai fatto uso di doping” rispondeva: “sì spesso: il mio doping è il mio ragazzo”. Se non finisce a tarallucci e vino, Pernilla si porta a casa almeno la promessa di farlo, ma di nascosto, senza dare il cattivo esempio ai giovani. Bode nel frattempo ha rotto il silenzio, sul Blick addirittura (in America il mito delle “Swiss Mountains” permane) ed ha sostanzialmente confermato dicendo di non credere all’antidoping ufficiale («un’ipocrisia») e facendo una precisazione diabolica: se l’epo e gli anabolizzanti si prescrivono alle persone normali per scopi terapeutici, perché non agli sportivi, se possono evitare gravi danni? Perché gli sportivi non sono ammalati di leucemia e di atrofismo muscolare, e perché il senso dello sport è il miglioramento del proprio livello attraverso l’eccellenza umana e non l’eccellenza dei laboratori chimici. Fine (apparente) della storia.

Pubblicato il 

25.11.05

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