Bisogna tornare al 1956 per trovare un numero così basso di automobili costruite in Italia: meno di 300mila, e meno di 500mila l’insieme dei veicoli; nel 2024 la produzione rispetto all’anno precedente si è dimezzata, alla faccia delle promesse prima di Fiat e poi di Stellantis di produrre nel nostro paese un milione di automobili l’anno. Crollate le vendite della multinazionale italo-franco-americana in Italia, diminuite sensibilmente in Europa e nel mondo. Oltre a subire la crisi globale del mercato delle quattro ruote, Stellantis vede ridursi le sue quote di penetrazione in particolare proprio in Italia. Paga per le sue scelte, meglio sarebbe dire non scelte, i ritardi nella ricerca e nello sviluppo nel settore elettrico che è quello del futuro lasciando campo libero ai cinesi. Così, finalmente approdato in Parlamento per rendere conto del passato e spiegare le intenzioni future, John Elkann, presidente e momentaneamente anche amministratore delegato (entro giugno sarà nominato il sostituto di Tavares, giubilato lo scorso anno dalla società senza che nessun operaio per questo si sia stracciato le vesti) ha rinnovato la tradizione accattona di richieste e lamentele allo Stato italiano colpevole dell’alto costo dell’energia, senza risparmiare critiche all’Unione europea che avrebbe imposto ai costruttori una transizione ambientale troppo rigida. Quante storie per un po’ di CO2. Autocritiche, John Elkann? Nessuna, anzi la rivendicazione dell’amore per l’Italia della famiglia Agnelli durato 125 anni. Amore criminale, 125 anni di finanziamenti pubblici e utili privati. Nessuna cifra, nessuna certezza sull’occupazione, ritardi colpevoli sui nuovi modelli.

 

Ma non tutto è in calo in casa Stellantis: cresce esponenzialmente la cassa integrazione con conseguente salasso dei salari operai, con buste paga già di per sé striminzite. Il premio di risultato per il 2024 prevede solo 600 milioni di euro da dividere tra i dipendenti a fronte di 5,5 miliardi netti di utile, distribuiti nonostante il calo di ricavi, utili e redditività. Gli azionisti si spartiscono una cifra otto volte maggiore di quella destinata ai lavoratori.

 

L’affare delle armi

Allora, con questi chiari di luna e sotto l’incalzare della crisi dell’auto, la domanda che proviene dai parlamentari di opposizione delle commissioni attività produttive e industria di Camera e Senato presenti all’audizione di Elkann, è d’obbligo: non sarà che qualcuno, tra la sagrada famiglia Agnelli e il governo Meloni, ha in mente la conversione della produzione di vetture nel settore militare, carri armati e siluri invece di berline, coupé e spider? Anche perché è ancora fresco l’accordo tra Iveco (Exor, cioè Agnelli) e Leonardo per la produzione proprio di carri armati. Ma che dite, non scherziamo, risponde il nipote dell’Avvocato: “Il futuro dell’auto non è nell’industria bellica”. Tutti sollevati, dunque? C’è poco da stare tranquilli ascoltando le parole seguenti di Elkann: certo però che “dipende da quello su cui i Paesi UE considereranno importante mettere energie e risorse”. La risposta sta negli 800 miliardi che la presidente Von der Leyen vuole trasformare in missili, droni, fucili, mine, carri armati e stipendi ai generali. L’idea di una riconversione dell’industria automobilistica in questa criminale direzione circola apertamente in Germania e anche a casa nostra non è più un tabù. Persino la maggioranza dei sindacati europei non è disposta ad alzare barricate contro questa ipotesi che per fortuna in Italia viene respinta al mittente, e non solo dalla CGIL. Il segretario della UIL Bombardieri evoca il ragionier Fantozzi della “Corazzata Potëmkin”: “Una cagata pazzesca”. Della CISL, invece, per ora si sa solo che la sua neoeletta segretaria Fumarola è favorevole al riarmo dell’UE.

 

Rassicurazioni poco rassicuranti

Tornando all’amore per l’Italia, Elkann ha dichiarato che solo grazie a lui e alla sua famiglia abbiamo ancora un’industria automobilistica e che dal 2026 vedrete quel che faremo con i due miliardi di investimenti. Non ha ricordato che nel frattempo, dopo essere andato ad omaggiare Trump a Washington il giorno prima del suo insediamento, ha promesso al tycoon 5 miliardi di investimenti e un bel po’ di nuove assunzioni per mettere le mani avanti in vista dei dazi. Solo pochi mesi fa, nell’era di Joe Biden, Stellantis aveva annunciato tagli alla produzione e all’occupazione negli Stati Uniti. Schlein, Conte, persino Calenda hanno ricordato al presidente e amministratore delegato di Stellantis il suo tradimento sulla gigafactory per le batterie destinate alle auto elettriche che aveva giurato di costruire a Termoli. Non se ne fa niente, troppo alti i costi dell’energia in Italia, il triplo che in Spagna, e in Francia il governo ha fornito agevolazioni che da Palazzo Chigi non arrivano. Eppure, il governo capitanato nell’occasione dal ministro Adolfo Urso, si dice soddisfatto delle rassicurazioni di Elkann, che non è mica come quel buzzurro del portoghese Tavares che era venuto a Roma a insultarci. Tutt’altra pasta, sarà perché è italiano. Solo la Lega di Salvini, nella maggioranza, alza la voce contro Fiat e Stellantis. Critiche le opposizioni e stanchi di chiacchiere e falsi impegni i sindacati dei metalmeccanici, persino la FIM si mostra insoddisfatta.

Infine, per rispondere indirettamente alla FIOM che chiede un’integrazione ai salari operai decurtati dalla cassa integrazione, Stellantis rilancia con una proposta che dimostra una volta ancora l’amore di Elkann per l’Italia: i cassintegrati della Maserati di Modena potrebbero trasferirsi a Kragujevac, in Serbia, dove la produzione va a gonfie vele. Un po’ di flessibilità ci vuole, soprattutto, nella quarta azienda mondiale della mobilità su gomma bisogna pure che tutti si muovano.

Pubblicato il 

20.03.25
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