Sulla guerra in Iraq Tony Blair rischia la carriera. Il primo ministro britannico lo ha riconosciuto, apertamente, nei giorni precedenti la grande manifestazione del 15 febbraio, che ha visto la partecipazione di circa due milioni di persone a Londra. L’imponente protesta degli inglesi, la più numerosa nella storia del paese, ha aperto una nuova crisi tra il governo britannico e i cittadini, ostili ad un attacco in Iraq. Recenti sondaggi hanno mostrato come il rifiuto della guerra continui a crescere nella popolazione britannica, soprattutto tra gli elettori laburisti. A questo punto, il primo ministro rischia veramente la carriera, anche perché il 50 per cento degli intervistati (elettori laburisti) ha dichiarato che, alle prossime elezioni, potrebbe dare il voto alle destre. Circa l’86 per cento degli elettori (destra e sinistra) ha invece chiesto, per parte sua, che gli ispettori dell’Onu abbiano più tempo per svolgere il loro lavoro.
Anche all’interno del partito il dissenso è aperto. Alcuni ministri laburisti – tra cui Clare Short e Robin Cook – hanno minacciato di dare le dimissioni se Tony Blair decidesse di dichiarare guerra all’Iraq senza una apposita risoluzione delle Nazioni Unite. Il partito è praticamente spaccato in due. All’indomani della manifestazione pacifica deputati e ministri laburisti, pro e contro la guerra in Iraq, hanno continuato ad affrontarsi attraverso una polemica a distanza. I “falchi” hanno fatto quadrato attorno a Tony Blair. Il vice primo ministro, John Prescott, ha lodato il «coraggio, l’intregrità e la modestia» del capo del governo. Il ministro dell’Ambiente, Margareth Beckett, ha lanciato anch’essa un appello a favore del primo ministro, seguita da Alan Milburn (sanità), Gordon Brown (economia) e David Blunkett (interni).
«Ognuno riconosce gli enormi pericoli politici che corre il governo in questo momento», ha tuttavia ammesso Margareth Beckett. La stampa non ha potuto che dargli ragione. «Se la partecipazione britannica in Iraq dovesse concludersi con un disastro per il paese, allora a quel punto potrebbe essere arrivato il tempo di eleggere un nuovo laeder», ha concluso un editorialista del “The Indipendent”. Il fronte politico laburista dei “No War” aderisce essenzialmente – eccetto alcune voci “indipendenti” – al Socialist Campaign Group, il gruppo di sinistra interno al Labour. Dai ranghi di questa formazione alcune critiche sono state mosse sulla “nuova idea” di Tony Blair per giustificare l’invasione dell’Iraq : «la guerra morale». Adesso il primo ministro vuole, infatti, destituire Saddam Hussein perché il regime del dittatore di Baghdad «provoca la morte di migliaia di vittime innocenti»: In precedenza il capo del governo britannico aveva invece dichiarato che l’unico scopo della campagna di guerre inglese era «disarmare Saddam». A questa dichiarazione Tony Blair aveva fatto precedere altre ragioni : il legame (non ancora provato) con Al-Qaeda e la non cooperazione con gli ispettori delle Nazioni Unite.
Le capriole del primo ministro britannico irritano la stampa inglese progressista. «Tony Blair gioca la sua ultima carta», dichiara un opinionista del “The Guardian”, ricordando che, sul versante “umanitario”, altri paesi – non soltanto l’Irak – si trovano in «situazione urgente»: il Congo e la Corea del Nord, senza dimenticare alcuni stati dell’Africa meridionale e australe. In tal senso, conclude l’editorialista, «la guerra morale di Blair non convince. È un’altra scusa per giustificare l’ingiustificabile». |