È entrato cardinale nel conclave, ne è uscito papa. Questo è il risultato della seconda giornata di votazione, in Vaticano, martedì scorso, per il card. Joseph Ratzinger. Eletto al quarto scrutinio, colui che è stato per anni il braccio destro (o sinistro? Dipende dalla prospettiva da cui si guarda, ma non ha comunque a che fare con le posizioni politiche…) di Giovanni Paolo II, ne è diventato il successore con il nome di Benedetto XVI. I pronostici del primo conclave del XXI secolo, di un evento mai come ora mediatizzato fin quasi dentro le segrete della Cappella Sistina, si sono quindi avverati: Ratzinger era uno dei papabili più accreditati, un po’ a sorpresa, visto il ruolo di severo guardiano degli scrigni dell’ortodossia cattolica durante il pontificato appena chiuso. Come cortesia vuole, al nuovo Papa non si possono non formulare i migliori auguri “di un Pontificato fruttuoso” (come ha fatto, ad esempio, a nome di tutti gli svizzeri, il Presidente della Confederazione, Samuel Schmid). La fecondità di un Pontefice romano si dovrebbe riconoscere dall’impatto effettivo della sua parola e del suo agire sulla mentalità corrente; si dovrebbe riconoscere dalla sua capacità di entrare in dialogo con le persone e le situazioni; si dovrebbe riconoscere dalla sua abilità di essere, nel nome del Signore che dice di voler servire come “servo dei servi”, fonte d’ispirazione e modello di vita per credenti e no. Perciò, a mio avviso, i voti al 265° vescovo di Roma vanno espressi in special modo nel senso che il professore di teologia dogmatica tedesco, divenuto Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, sappia essere anzitutto un autentico pastore, una guida di anime più che un custode fedele della purezza (anche semantica) dell’insegnamento della chiesa. Perciò sarà necessario che Benedetto XVI sia attento a riconoscere le situazioni umane in cui è chiamato a declinarsi il cristianesimo oggi, mettendosi all’ascolto delle reali esigenze della società mondiale contemporanea. A settantotto anni appena compiuti, il presule bavarese si prepara a traghettare la chiesa cattolica attraverso acque agitate. L’eredità lasciata da Wojtyla è infatti vasta e complessa e non si tratta di sicuro soltanto di riconoscimenti e successi. Le questioni aperte della perdita di velocità della chiesa in Occidente, della progressiva emarginazione dall’arena pubblica della pratica religiosa, della carenza di presbiteri e religiosi consacrati, dello scollamento tra insegnamento ufficiale e prassi personale (tanto per citare alcuni esempi), lasciano intravedere un’agenda già piuttosto carica per il Papa tedesco. Forse più che di lotta contro “la dittatura del relativismo” (uno dei concetti fondamentali della predica da lui pronunciata per l’apertura del conclave, letta da molti come un discorso d’autoinvestitura), la chiesa dei giorni nostri ha bisogno di tornare a vestire il grembiule del servizio dei poveri. Considerare la chiesa in uno stato d’assedio permanente nel mondo moderno, come ha mostrato in questi anni la cordata Wojtyla-Ratzinger, è un sentimento che trova la sua legittimazione storica. Rischia però, come insegna la medesima storia, di neutralizzare le energie migliori di un messaggio (quello di Gesù Cristo) che desidera aprire le finestre dei cuori e delle menti degli uomini, più che blindarli in una roccaforte inespugnabile.

Pubblicato il 

22.04.05

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