Sull’inserto del sabato del Corriere del Ticino di alcune settimane fa è stato pubblicato un articolo sul mondo del lavoro di oggi. Non ricordo esattamente l’inizio, ma se la memoria non mi inganna, parlava dei nostri nonni che si vergognavano di andare in disoccupazione. L’articolista proseguiva poi con un panegirico della flessibilità, che come al solito veniva presentata nei termini di occasione. In altre parole, proponeva la solita aria fritta cui non varrebbe nemmeno più la pena di replicare, se non fosse che a lasciar perdere si finirebbe comunque per lasciar campo libero a queste tesi. Ed allora, alcune considerazioni vanno pure fatte. Innanzi tutto, l’articolista ha scomodato persino i nostri nonni, che bontà loro, non potevano vergognarsi di andare in disoccupazione semplicemente perché non la conoscevano. Per due motivi: 1. la disoccupazione come la intendiamo noi, cioè in termini di assicurazione non esisteva. La relativa legge è infatti recente, non ha neanche trent’anni. 2. i nostri nonni avevano un’organizzazione ed una concezione del lavoro diversa dalla nostra. Molti di loro non avevano un lavoro salariato regolare, ma lavoravano stagionalmente quando frotte di uomini emigravano. Quando non erano sotto padrone, alcuni facevano i «lingera», altri si dedicavano a lavori per sé, altri ancora lavoravano occasionalmente. Come potevano quindi, i nostri nonni, vergognarsi di qualcosa che non faceva parte della loro vita? Ma tutto fa brodo, anche il ricorso ai miti, quando si tratta di far passare il concetto di flessibilità. Questa sì che i nostri nonni la conoscevano! Ed oggi come ieri, la flessibilità copre diversi aspetti. C’è quella quotidiana, che obbliga chi lavora ad adeguarsi alle pretese aziendali in termini di contenuti ed orari. E c’è quella che si sviluppa sull’arco della vita, e che impone non solo di cambiare posto di lavoro ma anche professione. La chiave di volta, in questo contesto, è la formazione continua, il cui ruolo è esaltato da tutte le parti. Vado in controtendenza, ma ho la netta impressione che la formazione continua stia assumendo il ruolo che era un tempo del lavoro sociale (vale a dire, per intenderci, dei servizi sociali in qualsiasi forma si voglia). Questi aveva ed ha il compito di promuovere l’integrazione professionale e sociale di persone emarginate e/o escluse. Il più delle volte lo faceva e fa normalizzando, cioè adeguando ai valori ed alle norme dominanti, le persone di cui si occupa. Ora, da qualche tempo sentiamo ripetere (e senza troppi peli sulla lingua) che esiste ed esisterà uno zoccolo duro di persone la cui integrazione è difficile. È un modo come un altro per dire che ci sono persone sulle quali non conviene scommettere, e per le quali ben poco può fare il lavoro sociale. La soglia d’integrazione, quindi si sposta, e va a coprire quelle persone che hanno un lavoro ma che devono restare competitive, non per guadagnarsi una promozione sociale ma per non perdere colpi. Ed è qui che la formazione continua gioca un ruolo decisivo: chi entra nel suo meccanismo resta integrabile e/o integrato. Chi non vi entra (perché non vuole o non può), si espone al rischio di degrado sociale. Queste sono le grandi occasioni che la flessibilità offre ai giorni nostri. Ho iniziato e finisco con i nonni. Pochi giorni fa ho conosciuto la sciora Anna, di anni settanta, che mi ha raccontato della sua gioventù e di quanto e come le toccasse lavorare. «Non tornerei più indietro a quei tempi là», mi ha detto. Chissà se si è resa conto che ci stiamo andando incontro?

Pubblicato il 

14.06.02

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