Appunti di una vita estrema

Pippo Delbono è una personalità fuori dagli schemi nel mondo del teatro e del cinema. Segnato da un percorso personale carico di sofferenza ma autore di spettacoli di folgorante bellezza, gli è appena stato attribuito il Premio Europa Nuove realtà teatrali. In questa occasione lo abbiamo incontrato.

Pippo Delbono, la sua vita e i suoi spettacoli appaiono indissolubilmente legati l'una agli altri. E in "Racconti di giugno" questo legame emerge prepotente. Lei come lo sente?

Io sono stato segnato dalle scelte che ho fatto all'interno della mia generazione. Alcuni ne sono venuti fuori meglio, io mi porto dietro le mie ferite. Ne parlo appunto in "Racconti di giugno". Forse è per questo che questo spettacolo o lo si ama o lo si detesta. Nessuno viene fuori dicendo "Carino…". A molti dà fastidio vedere in scena questo tipo un po' sgraziato che parla insistentemente di sé. Ma sono tranquillo, anche Jenis Joplin parlava tanto di sé… Però proprio "Racconti di giugno" ha aiutato alcuni a capire cos'è stata una certa strada di vita, che ha comportato anche un approccio diverso al mondo del teatro. E poi a Shakespeare, a Beckett, a Sarah Kane.
Come mai la scelta del teatro quale mezzo espressivo?
Io nel teatro ci sono capitato passando per vie traverse, a me interessavano di più altre forme d'espressione come la musica o la danza o il cinema. Sono contento di aver ricevuto il Premio Europa, però mi piace girare attorno al teatro. Del teatro non mi piace l'intellettualità, il creare categorie anche sociali. Per me il teatro non passa dai testi. Per me è un incontro di vita. E mi diverte quando i critici scoprono che cito qualche testo di autori come Antonin Artaud o William Shakespeare, che magari non ho mai letto… Vuol dire che ci sono degli incroci che vanno oltre il tempo, che autori del passato ti appartengono, che dialoghi con loro senza magari nemmeno conoscerli. Per esempio nello spettacolo "La menzogna" c'è un testo tratto da "Romeo e Giulietta" di Shakespeare. Ma chi l'avrebbe mai detto che ce l'avrei messo in uno spettacolo che parla di morte sul lavoro. L'ho letto quando ero in viaggio e mi sono reso conto che ci sarebbe stato bene. Perché si trattava di riflessioni che già Shakespeare aveva fatto ben prima di me.
Il suo rifiuto per l'intellettualità del teatro è una scelta di campo per la cultura cosiddetta bassa?
È un bel problema quello della cultura alta e della cultura bassa. Nella mia compagnia c'è un attore sordomuto. È ovvio che non posso fargli recitare dei testi, me che dovrà attingere da altre fonti, che nascono dal basso, dalla cultura popolare, dalla commedia dell'arte in senso ampio, per sviluppare la sua capacità espressiva. Basta questo per dire che è cultura bassa? Io mi sento più legato ad una cultura musicale che teatrale o letteraria: mio papà suonava il violino, ma anche qui è una cultura più popolare che alta. Se io m'imbatto in una poesia, quel testo mi deve trafiggere, la sua lettura intellettuale non mi interessa.
E come si sente oggi nella scena teatrale italiana?
Il teatro oggi non è cultura alta. È cultura media. Perché l'alto è qualcosa che si ricongiunge col basso: l'intellettuale vero quando fa un viaggio ritorna analfabeta, sa di non sapere (e scusatemi la banalità). Perché nel ritornare analfabeta c'è un ritorno all'essenza dell'essere umano. Tutto questo non è il teatro borghese di oggi, che è un teatro per la media borghesia. È una cultura media per una classe che non è nemmeno colta: oggi il pubblico borghese va a vedere un testo di cui non capisce nulla ma non lo ammette. Va a teatro e ne esce rassicurato. Resta legato alle conoscenze che aveva prima di entrare in sala. È una cultura che ci allontana dalla vita. Nel mio teatro invece c'è un capovolgimento totale. Perché per me la cultura ci deve avvicinare alla vita. Se si è colti, lo si è per stare nella vita, per vivere la vita, per guardarla dritta negli occhi.
Per questo sempre più spesso si dà al cinema?
In effetti se ho una vera passione è quella per il cinema. Che si vede anche nei miei spettacoli teatrali. "In questo buio feroce" ad esempio è molto cinematografico, con una grande attenzione per l'immagine, i montaggi incrociati ecc… Ed io sono anni che giro con una camera in mano. Il teatro ha una carnalità che il cinema per forza non ha. A teatro preferisco essere in compagnia a consumare un rito, al cinema invece mi sento meglio da solo. Quel che mi piace del cinema è che mi permette di viaggiare nello spazio, nel tempo, oltre la realtà.
E che viaggio racconta il suo nuovo film, "La paura"?
L'ho interamente girato con un telefonino che ha incorporata una videocamarea di altissima qualità. È un oggetto che mi ha permesso di entrare in situazioni altrimenti difficili da frequentare con una camera in spalla, come un campo rom o i funerali di un immigrato ucciso a bastonate a Milano. "La paura" parla dunque dell'Italia. Perché il cinema, oltre che permettere di sognare, è anche coscienza: io, qui, adesso vi sto raccontando una storia. Col cinema ho bisogno di raccontare una verità. Che non è questione di naturalismo, che di per sé è una finzione della realtà. La verità è coscienza che si sta usando un mezzo, che è poi il cinema che faceva Fellini e che in parte fa Moretti, un cinema che si racconta con il suo cinema.
Il suo è un cinema anarchico anche nel modo di prodursi?
Non mi interessa un cinema che fin dall'inizio è ingabbiato in una sceneggiatura. E qui in effetti nascono le discussioni con i produttori del mio prossimo film, che sarà un progetto un po' più grosso dei precedenti. Hanno anche ragione, perché si tratta di evitare sprechi e di dare a tutti i collaboratori le migliori condizioni per fare il loro lavoro con me. E allora per me si tratterà di trovare il modo di strutturare un viaggio che però non precluda la possibilità del volo, che non sbarri la strada a tutte le altre storie possibili. È la vita che ti entra, e la camera deve saperla catturare.
Lei sempre più è chiamato ad intervenire pubblicamente, nel dibattito politico. Sente una particolare responsabilità in questo suo nuovo ruolo?
Sì, ma non ne ho tanta voglia. Il 20 marzo ad esempio mi hanno chiesto di salire su un palco a Roma per una manifestazione di Sinistra e Libertà. L'ho fatto come una cosa che è giusto fare. Ho aperto dei rubinetti perché è giusto che la nostra cosa diventi un fatto politico – non partitico. È giusto che la cultura non sia più succube della politica – quindi ben vengano tutti coloro che vogliono reinventare la politica come fatto di spirito, di cultura. In Italia abbiamo lasciato che tutto andasse come stava andando. Più nessuno ha reagito. Le sole occasioni in cui il mondo della cultura ha reagito è quando si è visto tagliare i finanziamenti. E questa è una cosa che mi ha sempre fatto incazzare di bestia. Perché se hai qualcosa da dire, lo puoi dire anche senza soldi – il mio film fatto col telefonino sarà costato 100 euro a dirla grossa. Ed è un longometraggio. Il mio primo spettacolo, "Il tempo degli assassini", era costato 30 mila lire. E gira ancora oggi. Certo, tagliare i soldi alla cultura non si deve. Ma non mi va nemmeno chi continua ad astenersi dal prendere posizione, perché vive in un mondo del cinema che sa essere alimentato solo dai ricchi.
Il teatro è cultura media, ma nemmeno nel mondo del cinema, fatto dai ricchi, lei sembra starci molto bene…
Ma è così: il cinema nasce solo da certe categorie sociali. Ha davvero bisogno di essere reinventato. E se lo si reinventa, allora diventa un fatto politico: l'artista che si assume un mezzo che appartiene ad altri fa già così un atto politico. L'altro problema è che come artisti ci tengono (e ci teniamo) tutti isolati.
Il suo intento artistico è quindi sempre anche politico?
Sì, perché ciò che più mi dà soddisfazione è fare qualcosa che mi permette poi di cambiare un sistema di qualche tipo – mi piace che la cosa mia non sia bella per me, ma che contribusica a mettere in moto dell'altro. È qui che, parafrasando Pasolini, noi possiamo lanciare più lontano i nostri desideri. Quindi il politico è per me anche la risposta ad un mio bisogno – a non volermi rinchiudere nella soddisfazione personale per il mio lavoro, che di per sé è sterile. Non mi va di pensare al mio successo, preferisco pensare che anche grazie a me qualcosa stia capitando. Anche perché è un momento molto brutto, pieno di razzismo, dominato da una vecchia morale clericale. È vergognoso quello che sta capitando in Italia, nessuno poteva pensare che il nostro tempo sarebbe andato in questo modo.
Lei oggi è un uomo sereno?
Serenità è una parola che un po' mi fa paura. Sereno no. Però c'è stato un periodo in cui il dolore era molto più forte della gioia. Poi a poco a poco ho iniziato col tempo a recuperare. Oggi c'è ancora del dolore, ma in gran parte del tempo c'è anche della gioia. Serenità no, perché c'è sempre una guerra, c'è sempre un conflitto dentro di me. Ma c'è anche più equilibrio. E oggi posso dire al mio dolore di starsene zitto. Mentre un tempo la mente mi portava ovunque, e chi vede i miei spettacoli lo capisce, oggi posso dirle: "No, ne parliamo domani". Non è male, lo trovo interessante. Sono più padrone della mia mente. Oggi posso dire ai miei pensieri di stare zitti.


L'ultimo spettacolo è sulla ThyssenKrupp

Quella di Pippo Delbono, 50 anni, è una vita estrema. Estreme furono le scoperte dell'adolescenza e della prima giovinezza, fra musica, viaggi, amori, droghe. Estreme sono le sofferenze dell'età matura, fra un sistema immunitario compromesso e una mente che per troppo tempo ha deciso di andarsene per i fatti suoi. In mezzo c'è tanto teatro e un po' di cinema. Teatro imparato un po' da autodidatta, un po' nella cerchia dell'Odin di Eugenio Barba, un po' alla corte di Pina Bausch. Un teatro affermatosi subito per una cifra stilistica chiara ed un'attenzione per l'emarginazione in tutte le sue forme. Da sempre accompagnato da Pepe Robledo, Delbono s'è costruito con gli anni una compagnia in cui trovano rifugio personaggi come Bobò, un anziano sordomuto strappato al manicomio dove per mezzo secolo era stato dimenticato da istituzioni irresponsabili. Fra gli spettacoli di Delbono, da ricordare "Il tempo degli assassini" (il primo, dell'87), "Barboni" e "Questo buio feroce". "La menzogna", il più recente, è una struggente rievocazione in chiave personale del dramma della Thyssenkrupp, l'acciaieria torinese in cui morirono 7 operai.


Per saperne di più
www.pippodelbono.it
www.premio-europa.org
Il 12 e 13 giugno prossimi Pippo Delbono e la sua compagnia saranno ospiti del teatro Gessnerallee di Zurigo con lo spettacolo "Questo buio feroce", cfr. www.gessnerallee.ch

Pubblicato il

01.05.2009 04:00
Gianfranco Helbling