In clima di post elezioni americane capita di leggere articoli d’analisi su questo o quell’aspetto, perlopiù con un denominatore comune, lo stato o la condizione della democrazia. Soprattutto per un Paese che pretende di insegnarla, esportarla o imporla altrove. Tra le numerose letture capitate sott’occhio, un piccolo saggio puntava l’occhio sulla situazione del sindacato. Se ne può ricavare qualche utile avvertimento anche per noi. Stiamo ai fatti. Il tasso di sindacalizzazione negli Stati Uniti è andato via via scemando e ora risulta il più basso nella sua storia (10,3 per cento dei salariati, era ancora più del doppio negli anni Ottanta). I conflitti sociali tendono però a crescere: basterebbe pensare agli scioperi alla General Motors (un mese e mezzo) o alle continue manifestazioni dei salariati di colossi come Amazon, Google, McDonald’s o, in questi tempi, nel settore della sanità. Che cosa crea questa distorsione? Una risposta, apparentemente paradossale, potrebbe essere data dal Dipartimento del lavoro: un lavoratore sindacalizzato negli Stati Uniti guadagna in media il 22,7 per cento in più di un non sindacalizzato. La conclusione “economicista” imperante è pressoché logica: bisogna fare in modo che non ci si sindacalizzi; avremo maggior controllo e minor costo del lavoro, più competitività. Ed è quel che capita. Capita infatti che uno stuolo di consulenti e di studi d’avvocatura si son dati da fare come esperti in “rapporti di lavoro” o, più esplicitamente, in “strategie d’impedimento dei sindacati”. Stando al piccolo saggio (di John Logan, della San Francisco State University) circa l’80 per cento delle imprese confrontate con un voto sulla formazione di un sindacato, come pretende la legge, ricorre a quei servizi per evitarla. È un mercato di consulenze valutato a un miliardo di dollari. Le motivazioni antisindacato che si cerca di far passare tra i lavoratori sono di doppia natura: non avete bisogno di un sindacato per i vostri problemi, ci siamo noi avvocati che abbiamo un rapporto diretto con la direzione, otterrete di più; le imprese per essere competitive e mantenere l’occupazione richiedono flessibilità, tempi di lavoro adeguati alle necessità, salari e profitti commisurati e i sindacati sono un ostacolo. Spesso, si rileva pure, non mancano episodi di aggressioni o minacce sugli impiegati oppure il ricorso a bustarelle (episodi denunciati recentemente nel caso della Boeing a Charleston) per evitare l’elezione di un sindacato. I risultati antisindacato si ottengono anche seminando divisione e rivalità tra i lavoratori, sia studiandone la composizione “demografica” (gruppi etnici, religione, classi di età), sia utilizzando i percorsi di ognuno per insinuare paure o ricatti. L’obiettivo di fondo rimane quindi uno solo: dividere per avere il potere. Non sembra ormai un’illazione constatare un rapporto diretto tra antisindacalismo divenuto sistema, inganno populista accresciuto dal miliardario arrivato al potere, fragilità o crisi della democrazia. Si può comunque ricavarne con certezza un avvertimento su ciò che può portare una strategia politica-economica divenuta dominante e che va contrastata, per la stessa democrazia. Essa consiste: nel frammentare e destrutturare il lavoro, rendendolo un fatto solo individuale (e se carente una colpa di altri); nel togliergli ragione e forza collettiva (o democratica), ritenuti freno all’economia (al libero mercato, alla competitività); nell’escludere o emarginare il sindacato perché diventa, di fatto, l’unico contropotere (con forza contrattuale).
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