Anche questa è violenza

Non avere voce in capitolo sul proprio corpo al momento del parto e dover subire in silenzio protocolli medici non necessari è una forma di abuso

Il 25 di novembre ricorre la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, lo stesso giorno, le donne che ritengono di aver subito violenza durante il parto, la gravidanza o il puerperio, possono depositare una rosa nei luoghi dove è avvenuta questa violenza: è il Roses Revolution Day. Sì, perché la violenza contro le donne si manifesta anche così, in quello che dovrebbe essere uno dei giorni più belli della propria vita. Secondo uno studio pubblicato nel 2020, un quarto delle donne in Svizzera subisce una forma di violenza ostetrica durante il parto, con conseguenze anche importanti su mamma e bambino.

 

«Partorirai nel dolore», ci dissero, e così per molti anni le donne non hanno nemmeno osato pensare che quella sensazione di forte disagio o anche di dolore dovuta all’agire di chi le stava intorno durante il travaglio e il parto potesse essere violenza. Se poi il bambino è sano, di cosa si vuol lamentare la mamma? I medici e le levatrici hanno fatto semplicemente il loro lavoro. O forse lo potevano anche fare diversamente? Forse l’episiotomia e i conseguenti punti di sutura, la fatica per mesi a stare seduta e ad avere rapporti sessuali potevano essere evitati? Magari senza tutta quella pressione per fare l’epidurale in modo che le levatrici potessero seguire meglio l’urgenza nell’altra sala, quella mamma ce l’avrebbe fatta anche senza anestesia e sarebbe semplicemente più felice o il suo parto sarebbe andato in altro modo? Quella manovra che consiste nello schiacciare il ventre materno come fosse un tubetto di maionese per far uscire il bebè andava proprio eseguita? Sembra che in alcuni Paesi sia vietata, in ogni caso fortemente sconsigliata, eppure molte mamme raccontano di averla subita.

A ottobre 2020 l’Alta Scuola Specializzata Bernese (Bfh) ha pubblicato il primo studio a livello svizzero sulla violenza ostetrica, riunendo le testimonianze di oltre seimila madri di tutte le regioni linguistiche del paese: 27% delle donne ha dichiarato di aver subito una forma di violenza ostetrica durante il parto, che andava dal sentirsi mal informate sulle procedure mediche, all’essere messe sotto pressione o intimidite o ancora non ascoltate quando si sono dette in disaccordo con una decisione di trattamento. Il 10% di loro invece ha dichiarato di essere stata apostrofata in modo insultante dal personale specializzato durante il parto, mentre il 39% ha lamentato una limitazione nella libertà di movimento. Le donne provenienti da un contesto migratorio sono più colpite dalla violenza ostetrica, così come chi proviene da zone urbane.

 

Se nei paesi sudamericani se ne discute da qualche anno in più e alcuni hanno già varato legislazioni ad hoc, in Occidente si fatica non poco a fare i conti con questo tema controverso, che resta ancora in gran parte tabù. Fino a pochi anni fa, la violenza durante il parto era infatti stata normalizzata, tanto da non essere nemmeno considerata violenza contro le donne, ma grazie al lavoro di gruppi di attivisti in Sudamerica, le cose hanno iniziato a cambiare. Il Venezuela è stato il primo paese al mondo ad aver approvato una legislazione in proposito, formulando nel 2007 una definizione giuridica di violenza ostetrica e ginecologica: «Si intende l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avente come conseguenza la perdita di autonomia e delle capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità che impatta negativamente sulla qualità della vita della donna».

Anche in Occidente nel 2011 il tema ha iniziato a farsi strada a piccoli passi e nel 2014 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha riconosciuto il problema, sottolineando come vivere l’esperienza di trattamenti irrispettosi e abusanti durante il parto violi il diritto a un’assistenza sanitaria rispettosa e dignitosa, e ha pubblicato un documento intitolato “La prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere”. In questo documento, l’Oms evidenzia come in tutto il mondo le donne, durante il parto in ospedale, facciano esperienza di trattamenti irrispettosi e abusi.

 

Secondo il collettivo francese Ciane (che si occupa di ciò che ruota attorno alla gravidanza, al parto e ai primi giorni di vita), la violenza ostetrica consiste in una perturbazione della relazione di cura, intesa nella sua globalità, e può essere sia fisica che psicologica e verbale: posizione del parto imposta, solitudine, ricatti emotivi, uso di frasi irrispettose o maschiliste, battute a sfondo sessuale. Si tratta di una forma di violenza che spesso è compiuta in buona fede da parte del personale sanitario, ma non per questo ha conseguenze meno importanti sulle donne che la subiscono. Si tende inoltre a pensare che sia qualcosa che riguarda singoli casi di operatori sanitari poco sensibili o di mamme sfortunate, invece l’Oms ha rilevato come si tratti di una forma di violenza globale e sistemica, che può colpire tutte le donne, in tutto il mondo e appartenenti a qualsiasi categoria socio-economica.

C’è ancora molta difficoltà da parte dei professionisti del parto nell’accettare il termine “violenza” per designare alcune di queste pratiche, che spesso vengono attribuite all’urgenza del momento. Secondo una ricerca Doxa condotta in Italia nel 2017, però, la violenza tendenzialmente non avviene nell’emergenza, ma piuttosto nelle pratiche di routine prive di indicazioni cliniche: ad esempio lo studio rileva che l’episiotomia è praticata nel 54% dei casi, una percentuale che non può rilevare interamente dall’emergenza. Nella maggior parte dei casi le donne vivono l’episiotomia come una forma di violenza e il 61% ha dichiarato di non aver rilasciato un consenso informato alla procedura.

 

La nascita di un figlio dovrebbe essere un evento da ricordare con gioia, ma purtroppo per alcune donne si trasforma in un’esperienza traumatica, con ricadute negative sul suo benessere e sul rapporto con il bambino. Il Bfh, ad esempio, che ha condotto lo studio in Svizzera, spiega che questo genere di esperienze possono sviluppare nella madre dei disturbi mentali post-parto, che si manifestano con sentimenti di scoraggiamento, di esaurimento o anche con sensi di colpa e crisi di ansia. Nei casi più gravi la neomamma può soffrire anche di depressione e sintomi post-traumatici, che non devono essere sottovalutati e necessitano di una presa a carico.

Spesso la violenza ostetrica non è percepita come tale dal personale curante e a volte nemmeno dalla donna che la subisce, questo per vari motivi, tra i quali il fatto che una delle reazioni più comuni tra le vittime di abusi sia proprio la negazione della violenza stessa. Sì, perché alcune donne sviluppano le stesse identiche reazioni che normalmente si hanno dopo un abuso sessuale. Ci vuole tempo prima che la donna riesca a elaborare il vissuto del parto, che in genere emerge per gradi e le emozioni negative (rabbia, tristezza, delusione...) escono solo quando la madre si sente nuovamente al sicuro, a volte anche a distanza di mesi o addirittura di anni. Se queste madri non hanno un supporto adeguato e si trovano in difficoltà a legittimare il proprio vissuto doloroso, perché in fondo il neonato sta bene, la guarigione della ferita emotiva sarà più difficile.

 

In Ticino, a questo scopo, è stato creato un gruppo di auto aiuto rivolto alle donne che hanno un ricordo doloroso del proprio parto. Questo progetto è pensato in particolare per le mamme che non si sono sentite ascoltate o rispettate nei propri bisogni, che ritengono di aver subito degli interventi non necessari o che non hanno potuto mantenere il controllo sulla propria esperienza. Il progetto si chiama “Riparto dal mio parto” ed è promosso dall’Associazione Nascere Bene Ticino (Anbt). Gli incontri, a cadenza mensile, sono gratuiti e sostenuti da Dss, Ufag e dal Centro di auto-aiuto Ticino.

Pubblicato il

25.11.2021 08:28
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