Da un lato gli accordi bilaterali con l'Unione europea (Ue) e l'impegno a rafforzare le misure d'accompagnamento. Dall'altro un'Ue che negli ultimi anni ha seguito il credo neoliberista, mettendo vieppiù in pericolo i diritti sindacali e dei lavoratori. La Svizzera è ormai sempre più integrata in Europa, e con le politiche d'integrazione del vecchio continente deve fare i conti anche il sindacato. Ne parliamo con Vasco Pedrina, già copresidente di Unia, oggi attivo nel sindacato sul piano sia europeo che internazionale.

Il 13 dicembre con ogni probabilità l'Assemblea dei delegati di Unia raccomanderà di votare sì alla conferma degli accordi bilaterali con l'Unione europea (Ue) e alla loro estensione a romania e Bulgaria. Tre giorni dopo, il 16 dicembre, Unia sarà a Strasburgo a manifestare contro le politiche sociali dell'Ue (cfr. articolo sotto). Vasco Pedrina, sono posizioni piuttosto difficili da conciliare e da spiegare, non crede?
Sindacalmente dobbiamo muoverci in una situazione complessa. Da un lato dobbiamo dire ai lavoratori che la via solitaria non è possibile senza gravi conseguenze economiche e sociali. D'altra parte dev'essere chiaro che se la Svizzera fa un ulteriore passo verso l'Ue, allora assieme ai lavoratori degli altri paesi europei dobbiamo lottare perché ci sia un cambiamento di rotta in Europa. Dopo i cataclismi degli ultimi mesi e i duri colpi incassati dal neoliberismo c'è la speranza di creare nei prossimi anni un clima sociale nuovo, come negli Usa.
Ma con la crisi e i grossi problemi dell'economia d'esportazione svizzera è immaginabile che Unia non raccomandi di votare sì alla conferma dei bilaterali e alla loro estensione?
Ci sarà certamente dibattito. Unia copre quasi tutti i settori economici del privato, e non tutti i settori sono colpiti allo stesso modo dalla crisi. Nel sindacato anche questo può produrre sensibilità diverse: gli edili sono più orientati sul mercato interno, per loro le conseguenze di un no sarebbero molto diverse che per i colleghi del settore industriale, che dipendono molto dai bilaterali. Ma per noi la questione più difficile è come muoverci in una situazione in cui da un lato ci sono dei vantaggi economici chiari, mentre dall'altro c'è la preoccupazione del dumping salariale e di politiche padronali europee che vogliono rimettere in causa i diritti dei lavoratori. Diremo comunque che anche in questa tornata negoziale siamo riusciti ad ottenere dei miglioramenti non da poco nel sistema protettivo (cfr. riquadrato). Questi miglioramenti non sono da poco, ma non basteranno da soli a risolvere tutti i problemi. D'altro canto anche senza libera circolazione nei prossimi due anni, vista la crisi, la pressione sui posti di lavoro sarebbe stata comunque enorme.
Tuttavia un ulteriore avvicinamento all'Ue da parte della Svizzera ci avvicina anche ad una delle più potenti locomotive del neoliberismo degli ultimi anni.
È vero che le autorità di Bruxelles sono state molto orientate al neoliberismo. Ma è anche vero che con la crisi attuale persino il premier francese Nicolas Sarkozy e la Banca centrale europea stanno rivedendo i loro orientamenti. Sarkozy e il premier britannico Gordon Brown ad esempio hanno guidato l'Europa nel rivedere i meccanismi di controllo dei mercati finanziari. E vi sono forti spinte perché ci siano programmi di rilancio economico anche in favore dell'economia reale, cioè a sostegno dei posti di lavoro di quelle categorie che noi rappresentiamo. Ora ci vuole un movimento sindacale che conduca una forte campagna e una sinistra politica che si assuma di nuovo il suo ruolo.
In questo senso qual è il significato della manifestazione convocata dalla Confederazione europea dei sindacati (Ces) il 16 dicembre a Strasburgo?
Essa è il primo momento di una mobilitazione prevista fino alle elezioni del Parlamento europeo nel giugno del 2009, una mobilitazione fortemente voluta da noi svizzeri e dai tedeschi all'interno della Ces. La manifestazione del 16, alla quale sono attese 10 mila persone, è contro la revisione della Direttiva sul tempo di lavoro che dev'essere bloccata nella forma proposta dal Consiglio dei ministri. Inoltre si manifesta contro le quattro sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità europee che rimettono in causa il diritto di sciopero, la proibizione del dumping salariale e la legittimità di misure d'accompagnamento protettive come le conosciamo in Svizzera. In primavera è poi prevista una nuova, grande manifestazione sulla questione dell'impiego, dei salari e dei diritti dei lavoratori. Infine speriamo che il Primo maggio, e sarebbe una novità, vi sia una campagna unitaria di tutti i sindacati europei sui diritti dei lavoratori (salario uguale per lavoro uguale svolto allo stesso luogo).
I sindacati stanno pagando il ritardo nella loro integrazione sul piano europeo rispetto a quanto avvenuto a livello istituzionale ed economico?
C'è un ritardo del movimento sindacale rispetto ai processi di europeizzazione e di globalizzazione. Credo però che gli attacchi ai diritti dei lavoratori e le risposte da dare alla crisi finanziaria devono spingerci a recuperare terreno. E lo possiamo fare se riusciamo a coinvolgere i lavoratori in una campagna europea che sia veramente di peso.
C'è attenzione per le particolari esigenze della Svizzera nel contesto sindacale europeo?
C'è comprensione anche per le particolarità istituzionali della Svizzera con il suo sistema di democrazia semidiretta. Più in generale c'è attenzione per questi problemi perché in tutta Europa si è consapevoli che se si fa saltare i diritti dei lavoratori conquistati negli ultimi 50 anni le conseguenze sociali sarebbero molto gravi.


Sindacati in piazza a Strasburgo

Prevenire un attacco all'Europa sociale e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. È questo l'obiettivo della manifestazione che la Confederazione europea dei sindacati (Ces) ha convocato per martedì 16 dicembre presso il Parlamento europeo a Strasburgo. Lo scopo è di fare pressione sull'Europarlamento che, il giorno seguente, voterà la revisione della Direttiva dell'Unione europea (Ue) sul tempo di lavoro (cfr. riquadrato). Infatti, se il Parlamento europeo dovesse seguire le indicazioni del Consiglio dei ministri dell'Ue, la Direttiva verrebbe molto indebolita, con in particolare ampie possibilità di deroga agli orari massimi di lavoro e con la proliferazione di picchetti svolti sul posto di lavoro ma non considerati tempo lavorativo. La manifestazione del 16 dicembre sarà la prima tappa di una campagna europea della Ces per combattere la crisi dando la priorità all'impiego, ai salari e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.

La Ces è disposta ad accettare una revisione della Direttiva sul tempo di lavoro soltanto se alcuni principi fondamentali, ritenuti essenziali nel quadro della politica sociale dell'Ue, sono rispettati: orari di lavoro che garantiscono la salute e la sicurezza, miglior conciliabilità di vita famigliare e professionale, salari decenti. In questo senso le proposte fatte in giugno dal Consiglio dei ministri del lavoro e degli affari sociali al Parlamento europeo sono giudicate inaccettabili. Per la Ces, l'adozione delle proposte del Consiglio dei ministri svuoterebbe di contenuti la Direttiva e rappresenterebbe il primo passo indietro della legislazione europea in materia di politica sociale. La Ces con la manifestazione del 16 dicembre chiede che siano invece adottati tutti gli emendamenti dell'eurodeputato Alejandro Cercas (socialista spagnolo). Questi emendamenti sono già stati accolti dalla Commissione del lavoro e degli affari sociali dell'europarlamento. Perché il Parlamento li approvi devono però ottenere la maggioranza assoluta dei voti.
Questi in sintesi i punti controversi più importanti:
• Clausola di rinuncia (drop-out clause): dall'entrata in vigore della Direttiva secondo la Ces se n'è fatto un uso eccessivo, segnatamente in Gran Bretagna, dove sui lavoratori sono fatte forti pressioni perché rinuncino al limite massimo di 48 ore di lavoro settimanali. Il Consiglio dei ministri propone piccoli correttivi per arginare gli abusi più evidenti e un massimo di 60 ore (65 con i picchetti) per i lavoratori che hanno rinunciato alle 48 ore. Per la Ces invece fissare una durata massima settimanale di 60 o di 65 ore legittimerebbe questo limite, relativizzando e poi cancellando quello delle 48 ore. Piuttosto vanno da subito intrapresi passi per la progressiva abolizione della clausola di rinuncia.
• Tempo di picchetto: tre sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità europee stabiliscono che il tempo di picchetto (quello cioè nel quale non si lavora ma si è a disposizione del datore di lavoro) dev'essere considerato tempo di lavoro. Il Consiglio dei ministri vuole aggirare queste sentenze introducendo la nozione di picchetto attivo (nel quale effettivamente si lavora) e picchetto passivo (durante il quale si è "soltanto" a disposizione del datore di lavoro). Per il Consiglio unicamente il picchetto attivo dovrebbe essere considerato tempo di lavoro, anche se per il picchetto passivo il lavoratore deve trovarsi sul posto di lavoro. Per la Ces le decisioni della Corte di Giustizia devono essere applicate senza eccezioni.
• Periodi di riferimento: per il calcolo della durata massima del lavoro settimanale di 48 ore si considera oggi una media su 4 mesi (possibile una media su 12 mesi se stabilita in contrattazioni collettive). Il Consiglio dei ministri vuole che anche gli Stati possano decidere per via legislativa l'estensione a 12 mesi. La Ces vi si oppone: una vera limitazione del tempo di lavoro è possibile solo se il periodo di riferimento non è troppo lungo.

Pubblicato il 

05.12.08

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