Partigiano, deportato, evaso, paracadutista, poi giornalista, autore di teatro, regista, cineasta. Ma soprattutto libertario, sempre ed ovunque. Armand Gatti, che il 26 gennaio scorso ha compiuto 81 anni, è uno dei personaggi contemporanei più straordinari e affascinanti che il mondo della cultura francese e internazionale possa offrire. In questa intervista, raccolta in occasione dell’ultima edizione del festival Volterrateatro, Gatti passa in rassegna alcuni dei momenti centrali della sua vita e parla dei principi da sempre sottesi al suo lavoro e degli incontri con personaggi come Mao Tse Tung, Che Guevara o Fidel Castro. In tutta modestia Gatti alimenta il suo mito: un gioco al quale è anche bello prestarsi. Armand Gatti, sua madre era fervente cattolica, suo padre un anarchico convintissimo. Come si viveva in casa Gatti? Mia madre era terziaria francescana e discendente, sembra, dei francescani sopravvissuti all’eccidio perpetrato contro di loro dai domenicani. Abbiamo quindi sempre vissuto della forte ambiguità presente nel cattolicesimo a partire proprio da San Francesco. Ma mia madre aveva anche un debole per Sant’Antonio da Padova, che l’aiutava in particolare a ritrovare degli oggetti perduti. Questo però era sempre causa di animate discussioni fra lei e mio padre, secondo cui Sant’Antonio era uno stalinista. Io ero piccolo e cercavo di capire il senso di queste dispute e di trasformarlo a poco a poco in idee e azioni. Ma alla fine è prevalso in me il padre anarchico morto a bastonate a margine di una manifestazione, si sospetta per mano della polizia. L’essere ribelle è quindi una tradizione di famiglia? Direi di più. I Gatti appartengono ad un’antica tribù celtica. I celti sono sempre stati un popolo oppresso, infatti la nostra famiglia si trova sparpagliata un po’ in tutta Europa, anche fra la Svizzera e l’Italia. Per tradizione il giorno della festa nazionale nel rispettivo paese in cui ci si trova non esponiamo la bandiera nazionale, ma quella del lutto. Le prime canzoni che ho imparato da bambino sono celtiche. Lei è stato molto toccato dall’episodio di Rosa Luxemburg che ogni notte si appostava nel Giardino botanico fuori dal carcere dov’era rinchiuso il marito Karl Liebknecht e lo svegliava affinché potesse sentire il canto degli uccellini. Perché l’ha così toccato questo episodio? Da un lato per la tenerezza della situazione. Dall’altro perché Rosa Luxemburg e gli spartachisti hanno sempre goduto delle simpatie degli anarchici. Lei anche per il movimento anarchico era uno dei personaggi chiave. Del resto l’anarchico ucraino Nestor Makhno chiamò la sua Repubblica col nome di Luxemburg, benché lei fosse comunista. Tutti i grandi comunque sono libertari, che si tratti di Gramsci piuttosto che di Luxemburg. Lei è stata anche quella che mi ha fatto fortuitamente prender coscienza dell’importanza del teatro. In che modo? Quando ero nel campo di concentramento ci fu un giorno una discussione fra tre rabbini. Dicevano che non ci trovavamo in un campo in quanto eravamo già morti prima ancora di entrarvi dal momento che avevamo perso lo spirito dell’anima. A questo punto, logicamente, tanto valeva suicidarsi, pratica del resto assai diffusa nel campo. Quella discussione mi impressionò moltissimo. Un mese dopo uno dei tre rabbini entrò nella baracca è annunciò che quella sera ci sarebbe stato del teatro dato che, diceva, il solo modo per sopravvivere è fare del teatro. I tre rabbini fecero uno spettacolo organizzandolo su tre sole parole: “Ich war, ich bin, ich werde sein” (“Ero, sono, sarò”). Per me fu una folgorazione, in quel momento era Rosa Luxemburg che parlava, quelle erano parole tratte dalle sue ultime lettere, non pensai neppure un momento che potesse essere il dio dei tre rabbini ad averle dette per primo. Mi convinsi anzi che i rabbini fossero anarchici… In quello spettacolo “ich war” erano le vite precedenti al campo, nei ghetti delle città dell’est, mentre “ich bin” erano le frasi che pronunciavamo tutti i giorni nel campo: ebbene, queste frasi quotidiane erano di un’estrema comicità se tolte dal contesto, e quella in effetti è stata l’unica occasione nel campo in cui ho visto dei deportati sorridere. È a quel momento che decisi di fare del teatro: perché fu l’unica cosa che mi si dimostrò più forte di un campo di concentramento: sorridendo il campo scompariva, non c’era più. Ha avuto dei modelli nella sua attività drammaturgica? Decidendo di fare teatro mi sono rivolto agli autori che mi sembravano più vicini a me. Fra questi non c’era Bertolt Brecht, perché se anche scriveva dei lavoratori o dei campi di concentramento i suoi testi non avevano nulla a che fare con essi. Da giovane autore ero molto vicino a Jean Vilar, fondatore del Théâtre National Populaire che mise in scena la mia prima pièce, “Le Crapaud-buffle”. Ma è soprattutto con Erwin Piscator che ho sentito una forte affinità. Un giorno ero a Francoforte quando al telefono mi cercò proprio Piscator. Non lo conoscevo. Doveva fare un’intervista in tv e mi chiese di accompagnarlo. Ed è alla tv che, presentandomi, ha detto “è mio figlio”. Gli ho creduto, e gli credo ancora. Piscator è per me un altro padre. Ero con lui negli ultimi anni della Volksbühne di Berlino, quando era ancora direttore ma aveva tutti contro. Faceva spettacoli “per i lavoratori francesi”: non potevo abbandonarlo. Lei ha frequentato molti uomini di potere: non è un po’ strano per un anarchico? Per me il potere è soltanto un criterio d’esclusione. Ma bisogna anche vedere come uno effettivamente esercita il potere. Il solo vero anarchico giunto al potere è Mao Tse Tung. Ha saputo non farsi condizionare dal potere. Per me la sua è stata l’unica vera rivoluzione anarchica. Con la rivoluzione culturale ha voluto essere anarchico fino in fondo, ma ha sbagliato imbarcando comunisti e sinistrorsi vari che l’hanno tradita. Nel 1954 per il Parisien Libéré venne inviato in Guatemala e assistette al golpe contro il presidente Jacopo Arbenz. Fu in quell’occasione che conobbe Che Guevara, in che modo? Con il Che i rapporti furono instaurati grazie alla mediazione delle popolazioni autoctone discendenti degli indios. Ci incontrammo alla caduta di Arbenz all’ambasciata del Messico, che era rimasto uno dei pochi spazi liberi. Ricordo che ci chiedevamo perché gli indiani rifiutassero la riforma agraria. Uno degli indiani che mi aveva molto unito al Che aveva un figlio, Felipe, che mi accompagnò a far la conoscenza della guerriglia guatemalteca autoctona, una guerriglia che non aveva nulla a che vedere né con Arbenz, né con il Che. Un giorno però finimmo in un’imboscata. Felipe, cui mi ero molto affezionato, fu ucciso. Io fui fatto prigioniero e portato all’ambasciata degli Stati Uniti: tanto per mettere subito in chiaro chi stava dietro a certe cose... L’ambasciatore mi spiegò che ero un imbecille, un traditore della democrazia e della libertà. Ma il legame con gli indios del Guatemala è rimasto profondo, tanto che la mia prima pièce è stata messa in scena anche dalla guerriglia all’Università San Carlos. Con il Che e con Fidel Castro gli incontri furono frequenti. Sì, in particolare nel mio soggiorno successivo a Cuba nel 1962. Stavamo girando il mio secondo film, “El otro Cristobal”, e sia il Che che Fidel vennero a trovarmi sul set almeno una volta alla settimana, approfittando del fatto che giravamo molto di notte, dato che di giorno non avevano tempo. E lì sia il Che che Fidel si gettavano in lunghe discussioni con gli attori sul modo di pronunciare questa o quella battuta. Lavoravo soprattutto con i contadini cubani, il titolo di lavoro era “L’assalto al cielo”. Il titolo finale me lo diede Fidel, che mi definì appunto “l’altro Cristoforo Colombo”. Tra l’altro fu lui a permettermi personalmente di fare il film, perché l’apparato me lo voleva impedire, argomentando dapprima che non ero un rivoluzionario ma un surrealista e poi di essere un agente di James Joyce: a qualcuno sembrò un pericoloso americano, ma siccome nemmeno Fidel l’aveva mai sentito nominare andarono a svegliare il presidente Osvaldo Dorticos per chiedergli chi fosse Joyce… Lei nell’81 era a Derry, in Irlanda del Nord, con l’Ira. Che impressione le è rimasta di quell’impegno? Molto forte. Già prima che ci andassi una mia pièce era stata tradotta in gaelico da Bobby Sands e allestita clandestinamente dall’Ira. Ero a Derry per animare dei workshop con Paddy Doherty e si decise di fare un film, che poi sarà “Nous étions tous des mots d’arbre”. Per finanziarlo l’Ira s’era messa a raccogliere i soldi per la produzione la domenica fuori dalle chiese. Ma quando Sands morì per lo sciopero della fame, poco prima dell’inizio delle riprese, io non me la sentii di continuare. Allora quelli dell’Ira mi prelevarono, mi puntarono addosso i loro fucili e mi dissero che non avevo il diritto di tradire il popolo irlandese. Infatti finii il film. Attualmente lavora molto con disoccupati e carcerati. È difficile far capire loro che hanno qualcosa da dire e pure i mezzi per farlo? Paradossalmente sono in una situazione in cui è più facile capire questo che non per un attore, perché l’attore non si chiede mai il perché delle cose, ma soltanto il come. Noi cerchiamo con il nostro lavoro di far prendere coscienza a questi detenuti di diritto comune che in realtà sono dei detenuti politici. Si tratta dunque di un lavoro di riflessione su ciò che hanno fatto e sulla loro condizione attuale. È un processo non semplice quando ci si trova di fronte ad un detenuto che ha due morti sulla coscienza. Si tratta infatti di capire il perché di queste due morti e di comprendere che nessuno più dell’assassino è in grado di ridargli la vita, proprio perché è stato lui a togliergliela. E come affronta il lavoro teatrale con i detenuti? Ha un metodo? È stato in Cina che ho trovato un modo per essere giusto facendo del teatro. Un giorno ero con Mao Tse-Tung e gli parlavo del teatro in Europa e delle difficoltà che trovavo nel mio lavoro. Lui mi disse: "risponda alla domanda “chi si rivolge a chi” e la sua pièce è fatta". Da allora applico questo metodo. E la cosa più straordinaria è che mi sono accorto un giorno, leggendo Borges, che questa è la base stessa del Buddhismo. In definitiva dunque se mi chiede che cosa faccio in prigione le rispondo “faccio del Buddhismo”. Perché la domanda fondamentale che soggiace ad ogni dialogo è proprio “chi si rivolge a chi”. Armand Gatti, come sta? È una domanda difficile da penetrare. Sul piano quotidiano, materiale, non m’interessa neppure darle una risposta. Sul piano dell’essere invece dibatto molto con Heidegger. Da lui imparo molto, capisco l’importanza di mantenere un dialogo aperto con l’universo quando fra esseri umani il dialogo rimane confinato alla stretta quotidianità. È deluso dai contemporanei? Deluso è dir poco. Oggi siamo sommersi dal banditismo, dall’americanismo. Ci sono certamente state generazioni più generose di quelle di oggi, penso ad esempio a coloro che hanno fatto la resistenza. Ma la vita degli uomini è fatta di alti e bassi: oggi penso che siamo in pieno declino e che ci avviamo inesorabilmente alla fine. Siamo destinati a fare la fine del diplodoco. Eppure lei continua la sua lotta, da 65 anni… C’è una sola lotta, quella che la vita mi ha lasciato intravedere. Non ho fatto altro che ciò che la vita ha voluto che facessi: provengo da una famiglia umile, ho conosciuto la guerra, la deportazione, il campo di concentramento. Oggi sono molto felice perché ho trovato il modo di entrare in relazione con l’universo. Lei dunque è quel che è perché è passato attraverso alcuni dei momenti più bui del 20° secolo? Così li definisce la storia, scritta sempre dalla parte dei vincitori. Forse i momenti davvero bui sono invece stati altri. Il bene e il male sono sempre relativi allo spazio e al tempo in cui ti trovi. Il male assoluto non c’è. Dipende da mille cose come lo percepiamo. scheda Figlio di un netturbino anarchico di Montecarlo ucciso quando lui aveva 15 anni, Armand Gatti a 18 anni, nel 1942, si unisce alla resistenza. Arrestato, torturato e condannato a morte, viene graziato per la sua giovane età e finisce in un campo di concentramento. Da lì evade per unirsi all’esercito inglese e partecipare come paracadutista alla liberazione della Francia. Alla fine della guerra si dà al giornalismo ed è presente su tutti i fronti più caldi, l’Algeria e il Guatemala fra gli altri. Ma sono ben presto il teatro, il cinema e la poesia che si impongono nella sua vita: un lavoro culturale però sempre svolto in funzione del suo impegno politico e sociale. Così “L’enclos”, girato nel 1963 in Jugoslavia grazie all’appoggio di Tito, è il primo film a trattare il tema dei campi di concentramento nazisti. Nel ‘68 un suo spettacolo sul generale Franco è bloccato da De Gaulle in persona. Nei primi anni ‘70 scrive una pièce sulla base di un suo epistolario con le terroriste della Raf imprigionate Ulrike Meinhoff e Ingrid Schubert. Poi gira un film con gli operai immigrati della Peugeot, “Le lion, sa cage et ses ailes”. Nei primi anni ‘80 è in Irlanda del Nord. Nell’83 a Tolosa fonda l’Atélier de création populaire, seguito da La parole errante a Montreuil. In essi fa teatro, cinema, poesia e pittura in particolare con disoccupati, tossicodipendenti, clandestini, delinquenti. E quando inizia il lavoro con loro la butta sul paradosso: «in principio era il Verbo, e il Verbo era Dio. Volete essere Dio con me?».

Pubblicato il 

01.07.05

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