Affari nostri

Non si parla male dei defunti, perché non possono difendersi e perché “non sta bene”. Così vuole la tradizione, tant’è che ce lo insegnano da bambini. L’espressione latina per dirlo, poi, è referenza mondiale: De mortuis nil nisi bonum dicendum est, nella versione breve De mortuis nil nisi bene.


Ma come la mettiamo con i personaggi pubblici? Il tema è salito di recente alla ribalta delle cronache. La disgrazia che ha troncato le vite di Kobe Bryant e della figlia Gianna ha emozionato il pianeta. Commentatori di ogni paese si sono affrettati a celebrare i talenti dello sportivo, a quanto pare noto anche per le sue attività di beneficenza. Apriti cielo, quando alcune giornaliste americane si sono permesse di ricordare che nel 2003 Bryant si era reso protagonista di violenza sessuale su una giovanissima impiegata dell’hotel in cui il campione pernottava.

 

Il caso andò avanti come succede quando una femmina normale e un maschio ricco si ritrovano in una situazione analoga. Gli avvocati di lui la dipinsero come una poco di buono, lui disse che la donna era consenziente, i fan argomentarono fosse solo a caccia di soldi. Esami ginecologici confermarono la violenza – lacerazioni incompatibili con la versione del campione. Il caso si chiuse con le scuse pubbliche di lui, un risarcimento in sede civile (oltre due milioni di dollari) e un anello da quattro milioni che Bryant regalò alla moglie. Il campione dichiarò che per lui era stato sesso libero, ma con ogni evidenza per la ragazza violenza.

 

Faccio fatica a immaginare cotanta differenza fra la percezione di un uomo e di una donna dello stesso significativo evento. Ma almeno in questo caso l’ammissione e le scuse pubbliche arrivarono. Siamo d’accordo, spero, che è il minimo sindacale. Ma vediamo spesso di peggio e allora mi dico, almeno non l’ha ulteriormente insultata. Eppure, quando le colleghe si sono permesse di ricordare che oltre agli allori e alla beneficenza Bryant si era distinto per un atto criminale, si è aperto il vaso di Pandora. Ingiurie, minacce di morte. Problemi con il datore di lavoro. Accuse di cattivo gusto e crudeltà mentale. La questione ci riguarda; sono affari nostri, perché la memoria collettiva ci appartiene. È giusto cancellare crimini e brutture, quando un personaggio famoso passa a miglior vita? Tirare le cuoia, significa diventare automaticamente santi? La questione si ripropone ogni volta che il caro estinto è uno statista, un politico, un divo del cinema o una cantante.

 

All’improvviso i media celebrano le straordinarie virtù del personaggio. È successo con Andreotti e Bush padre, con Yitzhak Rabin e Karl Lagerfeld, possiamo scommettere che succederà ancora. Mentre leggete queste righe nelle redazioni si preparano i “coccodrilli”, pezzi commemorativi sui Vip che per pura statistica presto passeranno al creatore. Li vedo i miei colleghi, affaccendati a inanellare frasi brillanti sulle luminose gesta di questo o quel criminale di guerra. La cosa incredibile è che l’amnesia selettiva non risparmia giornalisti bravissimi, né testate critiche.

 

Onore allora a The Daily Beast, che all’indomani del linciaggio delle giornaliste ha pubblicato estratti dai verbali dell’inchiesta: https://tinyurl.com/y8f5okon. Un traduttore online se non masticate l’inglese e un bel pelo sullo stomaco vi serviranno, i dettagli sono orribili. Chissà se nel frattempo Bryant era “cambiato”. Di sicuro, nel 2003 era pericoloso. Agli inquirenti disse: “Avrei dovuto fare come Shaq (il suo collega Shaquille O’Neal, ndr): le paga e stanno zitte”.

Pubblicato il 

13.02.20

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