American spirit

Tra Miami, sulla costa atlantica, dove siamo giunti venendo dai Caraibi, e San Francisco, sul Pacifico, c’è una bella distanza. La traversata degli Usa coast-to-coast è stata teatro di imprese epiche, letterarie e cinematografiche. Da ciò la decisione di affittare un’automobile per scegliere tappe e fermate a nostro piacimento, per poi riconsegnarla in California. Ottomila chilometri in sedici giorni ci hanno portato fino a San Francisco passando per foreste, città e deserti. L’interno degli Stati Uniti è stato una sorpresa. Le grandi città, moderne e piene di grattacieli, non sono molto numerose, e tra loro si estendono enormi parchi nazionali, foreste e deserti protetti. Non appena si lascia una grande autostrada interstatale, di quelle che hanno sostituito la gloriosa «Route 66» che collegava Chicago con Los Angeles, ci si trova tra sequoie impressionanti, conifere di tanti tipi, torrenti, laghetti, fiori, animali. Niente a che vedere con la densità di popolazione europea. Tra questi parchi si trovano zone agricole e borgate i cui abitanti vivono in case unifamiliari parecchio lontane una dall’altra. Poca gente che vive isolata, senza incontrarsi molto, salvo probabilmente la domenica alle messe delle varie comunità cristiane. Paesaggi e contrasti Questo contrasto fra una natura lussureggiante e ancora selvaggia e i centri delle maggiori città, con le strade larghissime fra grattacieli altissimi, si ripercuote negli atteggiamenti degli Americani, in parte Superman, in parte Qui, Quo e Qua. Sono giustapposizioni violente che, viaggiando, ti si presentano a ritmo incalzante. In tre giorni abbiamo visitato paesaggi stupendi e incredibili. Luoghi dove la natura ti si propone ai massimi livelli di grandiosità facendoti sentire piccolo piccolo. Crederesti di essere tornato ai tempi dei dinosauri e tutt’a un tratto incappi in una metropoli degna di un racconto di fantascienza. Passando dal «Four corners point», unico caso negli Usa in cui quattro stati, New Mexico, Colorado, Utah e Arizona, si toccano, siamo giunti nello Utah da dove abbiamo imboccato la Monument Valley, che porta in Arizona attraverso uno dei più spettacolari paesaggi esistenti. È una vallata tranquilla, nella quale non scorre acqua, che attraversa un deserto tutto rosso di ghiaia, sabbia e pietrisco, dal quale sorgono formazioni rocciose che assumono le forme più inverosimili stagliandosi nel cielo. Non cerco di descrivere quegli strani monoliti alti tre o quattrocento metri che tutti hanno visto in molte foto e nei film di John Ford (Ombre Rosse e Alla conquista del west), ma al trovarseli davanti irradiano una maestosità tale da lasciarti un po’ stralunato. Lo spirito di Manitù Pensi anche ai Navajo che ancora abitano questo luogo per loro sacro e isolandosi cercano di resistere all’invasione dei visitatori, dei quali però hanno bisogno per vivere. Nelle riserve dove vivono gli indiani paghi per entrarci e fai il tuo giro seguendo percorsi delimitati, quando non sei obbligato a salire su uno dei loro bus. Inoltre è assolutamente proibito andare a bussare alla porta di qualcuno o avvicinarsi al villaggio, se questo non fa parte del giro organizzato. L’unico contatto è con la guida o con gli artigiani che su bancarelle disposte qua e là vendono vasetti di ceramica, collane e braccialetti, spesso bruttini. Gli altri introiti vengono loro dai casinò che, approfittando della quasi extraterritorialità delle riserve, vi proliferano. Forse è meglio vivere così che sparire dalla faccia della terra, come è successo ai loro cugini dei Caraibi che non si sono arresi, ma resto nel dubbio. L’indomani mattina via verso il Gran Canyon del Colorado, l’immagine più famosa al mondo. Altro posto indescrivibile in cui ti trovi in un bosco pianeggiante che tutt’a un tratto precipita in una stretta valle che con tremendi dirupi dai colori stratificati (tutte le ocre possibili) sprofonda per oltre mille metri per far passare un fiumiciattolo. Niente avevo mai visto di così grandioso come in quei due giorni. Las Vegas, l’effimero Lo lasci e in poche ore di macchina ti trovi a Las Vegas, che ben rappresenta l’altro estremo del possibile. Il massimo dell’artificiale, dell’effimero, dell’apparenza: un paese dei balocchi in un altro mondo dove si raccolgono tutte le giuggiole più dolci di questo. Siamo lontani dalla regale severità dei paesaggi visti nei due giorni precedenti, ma si tratta pur sempre uno spettacolo impressionante. Suoni, luci, colori a profusione che da ogni lato ti blandiscono. Gli ambienti più fantastici dove passando da un casinò all’altro (molto democratici, c’è anche gente in canottiera e braghe corte) giri per il mondo, dal palazzo di un pascià nel deserto, con tanto di finto cortile con finto temporale ad orari fissi, a Parigi, con la copia della torre Eiffel, dell’Assemblea nazionale e di una delle sue stazioni ferroviarie, neanche tanto più piccole degli originali, a New York, con Manhattan rifatto, al casino di Monte Carlo, al palazzo romano antico, alle piramidi d’Egitto, tra fontane in cui l’acqua sgorga dalle fiamme, e un’enorme piscina con spettacoli di zampilli in movimento che disegnano forme fantasmagoriche seguendo ritmi e melodie di pezzi musicali. Pareti rocciose con tanto di cascate che finiscono nel marciapiede, giardinetti dai cui bossi tagliati a forma di animali escono le note di canzoni famose, sale di spettacolo che annunciano concerti di mille stelle e soprattutto sale da gioco. Migliaia di macchine mangia-soldi e poi tavoli più classici con roulette e black jack accuditi da seducenti «croupier» in minigonna. Anche seduto al bar, per non perdere tempo, puoi combattere contro un piccolo schermo incastrato nel bancone che ti propone un certo numero di giochi, una fessura per infilarvi i dollari o la carta di credito e un pozzo dove eventualmente ricuperare le vincite. La Valle della morte Il giorno seguente nuovo tuffo nei tempi geologici. Per andare verso la California, abbiamo scelto la strada che percorre la Death Valley, la Valle della Morte, nella quale morivano di sete e di caldo i fuorilegge che non potevano scegliere una via più sicura per sfuggire agli sceriffi. Rinchiusa fra alte catene montuose, la valle, il cui punto più basso, chiamato Badwater perché vi si trova una sorgente di acqua imbevibile a causa dell’alta salinità, si trova ottantacinque metri sotto il livello del mare, è una striscia di sale lunga sui trecento chilometri e larga una decina. Mille tipi di pietre e minerali formano le montagne che delimitano questa pianura, dipingendole delle tinte più diverse, dai rossi ai gialli ai verdi e agli azzurri. Qua e là sono intagliate da stretti canyon, testimoni di arcaici torrenti, con le pareti formate da marmi bianchi compatti e levigati da quelle acque e da altri di vari colori che formano conglomerati simili a mosaici astratti. E un caldo pazzesco, senza un filo d’aria; non ti vedi nemmeno traspirare perché il sudore evapora appena sgorga dai pori della pelle; un sole implacabile i cui raggi niente interrompe, di modo che gli oltre quaranta gradi all’ombra sono una cosa puramente teorica. Per fortuna l’aria condizionata della nostra macchina fa meraviglie, ma non appena scendi e spegni il motore ti manca il respiro. A causa del caldo rinunciamo alla gita di due ore che ci permetterebbe di raggiungere il famoso e sconosciuto Zabriskie Point, ma proprio non ce la sentiamo. Preferiamo la frescura dell’auto che ci porterà a dormire a Mammouth Lake, una specie di S.Moritz di prati, boschi, fiori e laghetti, posta a oltre duemila metri d’altitudine. Sulle strade di San Francisco L’indomani San Francisco con le sue numerose facce ci ha accolti con il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport del giorno stesso, venduti da ragazze franco-antillesi in un caffè di stile italiano ai margini di Chinatown e a poche centinaia di metri dalle vie del centro attorniate dai grattaceli più fantasmagorici e dalla Columbus street, chiamata anche Corso Cristoforo Colombo, dove ristoratori calabresi ti propongono deliziosi risotti e pastasciutte ai frutti di mare del Pacifico accompagnati da dolcetto d’Alba e prosecco di Conegliano. È la prima volta che incontriamo una simile miscellanea negli Stati Uniti, e proprio quando ne sei più lontano, ti senti un po’ in Europa per il modo di essere della gente. Forse siamo anche noi diversi poiché, avendo raggiunto il Pacifico, un’altra tappa si è conclusa e ora comincia il viaggio verso Panama dove troveremo la nave cargo che ci porterà a Tahiti, introducendoci nel mondo dell’Oceano Pacifico. Dopo sette mesi di Americhe è tempo di cambiare continente.

Pubblicato il

07.09.2001 06:30
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