Maria Arietti, nata il 4 aprile 1927 e deceduta il 26 luglio 1995 a Cavagnolo (Torino) per mesoltelioma peritoneale e asbestosi, è la prima del bollettino di guerra che elenca le circa tremila persone cadute o ammalatesi in Italia per colpa dell'amianto, il minerale killer lavorato fino al 1986 in quattro stabilimenti dell'Eternit contro i cui ex dirigenti giovedì prossimo a Torino si aprirà uno storico processo.

Sul banco degli imputati il Pubblico Ministero di Torino Raffaele Guariniello, dopo anni di faticose indagini, è riuscito a trascinare per la prima volta i massimi ex dirigenti della multinazionale del cemento: il miliardario svizzero (originario di Heerbrugg,  San Gallo, oggi residente in Costa Rica) Stephan Schmidheiny (62 anni) e Jean Louis Marie Ghislain De Cartier De Marchienne, nobile belga 89enne. Sarebbero loro infatti i responsabili di quanto avveniva nelle quattro sedi prese in esame dalle indagini: Cavagnolo (provincia di Torino), Casale Monferrato (Alessandria), (Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia). I due padroni dell'amianto, nella qualità di effettivi responsabili della gestione della società Eternit, sapevano della pericolosità del minerale, ma hanno omesso di adottare provvedimenti adeguati e, anzi, hanno commesso fatti diretti a cagionare un disastro e dai quali è derivato un pericolo per la pubblica incolumità. Il minerale-killer è infatti stato immesso in ambienti di lavoro e in ambienti di vita su vasta scala e per più decenni mettendo in pericolo e danneggiando la vita e l'integrità fisica di un numero indeterminato di lavoratori e di semplici cittadini, causando il decesso di molti di loro, si legge nella richiesta di rinvio a giudizio  (accolta lo scorso luglio dal Giudice dell'udienza preliminare Cristina Palmesino) per i reati di "omissione dolosa di cautele e di misure di protezione" e per "disastro doloso".
«Un disastro ancora in atto, che sta provocando nuove malattie correlate all'amianto, sia tra gli ex lavoratori, sia tra i residenti in prossimità degli ex stabilimenti o nei luoghi in cui è in uso materiale derivato dalle lavorazioni», ha spiegato la giudice Palmesino ricordando come la conta delle vittime sia purtroppo in continuo aggiornamento.
Le carte processuali, composte di oltre 200 mila documenti, ricordano la storia di migliaia di persone colpite da mesotelioma, carcinoma polmonare e asbestosi: dipendenti dell'Eternit ma anche i loro familiari e persino residenti nelle vicinanze della fabbrica, soprattutto tra i cittadini di Casale Monferrato dove il disastro ha assunto dimensioni quasi inimmaginabili (vedi pagine seguenti): i casalesi sono rimasti per decenni soggetti ad un'esposizione «incontrollata, continuativa e a tutt'oggi perdurante» che non ha risparmiato nemmeno «fanciulli e adolescenti», indica il capo d'accusa.
Negli ultimi quindici anni sono già stati processati diversi rappresentanti locali dell'Eternit, ma questa è la prima volta che un tribunale dovrà valutare le responsabilità ai massimi livelli.
Quello che si aprirà giovedì prossimo alle 10 presso il Tribunale di Torino sarà il più grande processo mai celebrato in Europa, sia per il numero di attori coinvolti che per l'interesse che susciterà. Le parti lese individuate dall'accusa sono più di tremila ed hanno diritto di costituirsi parte civile. Molti di loro l'hanno fatto e altri no, semplicemente perché non sanno di avere questa possibilità: visto il numero elevato, i cancellieri non hanno infatti potuto inviare le notifiche ed hanno optato per pubblici annunci. Per questo il tribunale si è servito di cinque siti internet in cui è possibile consultare sia il decreto di rinvio a giudizio dei due imputati sia l'intero elenco delle vittime.
Ma ci sono anche ex lavoratori dell'Eternit (e soprattutto i loro familiari, visto che i più sono morti) che rinunciano in partenza a costituirsi parte civile in cambio di un accordo di risarcimento con l'imputato Stephan Schmidheiny, il quale offre circa 30 mila euro (45 mila franchi) per ogni vittima e 20 mila euro supplementari (30 mila franchi) per ogni morto da destinare alla ricerca sul mesotelioma.
Un'offerta fatta «in segno di solidarietà» affermano i suoi avvocati,  ma avvenuta in tempi sospetti, visto che è giunta dopo la richiesta di rinvio a giudizio di Raffaele Guariniello. Insomma, come spiega uno dei legali dell'associazione familiari delle vittime, «non priva di motivi di interesse», oltre che «parziale», visto che non riguarda tutte le parti lese conteggiate dalla Procura di Torino, ma solo i dipendenti che hanno prestato servizio nelle quattro filiali italiane dell'Eternit tra il gennaio 1973 (quando gli svizzeri subentrarono ai belgi) e il giugno 1986 (data del loro fallimento su istanza della stessa Eternit): rimangono fuori dunque i loro congiunti e i privati cittadini che per decenni hanno inalato inconsapevolmente le fibre di amianto.
Secondo alcune stime, l'operazione del miliardario svizzero (con un patrimonio di 3,5 miliardi di franchi tra i trecento uomini più ricchi del mondo) dovrebbe consentire di sfoltire l'elenco delle parti civili di circa la metà.
Ma non sarà questo ad impedire al processo di Torino di fare storia. Nella capitale piemontese si caleranno migliaia di persone: i malati ancora in grado di spostarsi e i familiari delle vittime, i rappresentanti degli enti locali, di associazioni e sindacati che si sono costituiti parte civile, i leader di comitati e gruppi italiani ed europei, giornalisti di mezzo continente.
Per l'evento sarà predisposta la maxi aula situata nel piano interrato del Palazzo di giustizia, la più grande e la meglio attrezzata, con impianti di registrazione e ripresa, monitor, schermi, telecamere di sicurezza. Essa sarà videocollegata con altre due aule adiacenti, dove un migliaio di persone potrà seguire le udienze.
Il processo -che in prima istanza dovrebbe durare circa due anni- si preannuncia molto difficile, secondo il procuratore Guariniello. «Esso dovrà essere giusto, sia per le vittime sia per gli imputati. Non c'è nulla di scontato in partenza. Noi abbiamo individuato i capi d'accusa mentre i giudici dovranno vagliare tutto», afferma il magistrato torinese, che da una vita è impegnato a contrastare ogni forma di lavoro che uccide.



Reportage da Casale Monferrato, dove si continua a morire d'amianto

Hanno il volto segnato dalla sofferenza e il dolore scritto nello sguardo, ma anche tanta forza e determinazione per chiedere giustizia. Sono vedove, vedovi, genitori sopravvissuti ai figli, fratelli e  sorelle, figli rimasti senza famiglia, malati e cittadini qualsiasi le persone che in queste settimane affollano, mattino e pomeriggio, i locali della storica sede della Camera del lavoro di Casale Monferrato, nella centralissima Piazza Castello. Qui opera da ormai trent'anni l'Associazione delle vittime dell'amianto, ma questo è un periodo di particolare fibrillazione, perché il 10 dicembre a Torino si aprirà il processo contro i massimi vertici della multinazionale svizzero-belga Eternit, che qui, con la sua "fabbrica del cancro", ha provocato una strage talmente enorme da sembrare inverosimile: dall'inizio degli anni Ottanta i morti hanno già superato quota 1'500.

Molte vittime dirette e indirette di questa strage dell'amianto sono qui negli angusti locali di un vecchio palazzo che trasuda storia sindacale per firmare i documenti necessari a costituirsi parte civile nel processo, per discutere con i volontari e i legali dell'associazione, per raccogliere informazioni, o semplicemente per ritirare la bandiera tricolore con la scritta "Eternit Giustizia" da esporre al balcone o alla finestra della propria abitazione.
Le persone che incontriamo raccontano storie diverse, più o meno drammatiche, ma tutte legate a doppio filo con quel maledetto stabilimento distante poche centinaia di metri e del quale oggi, a ventitre anni dalla sua chiusura, rimangono in piedi solo alcune parti: il resto è stato abbattuto e sigillato sotto una cappa di cemento armato. Su quel sedime, chissà quando, dovrebbe sorgere un parco giochi.
Un parco giochi che cancellerà un simbolo tetro e inquietante ma che non potrà certo far dimenticare le persone che sono morte e che moriranno di cancro ai polmoni, di asbestosi o di mesotelioma pleurico (la malattia da amianto più grave che non dà scampo e uccide in pochi mesi). Le statistiche descrivono un quadro drammatico: sono già oltre mille i morti tra gli ex dipendenti della Eternit che erano costretti, senza le sufficienti protezioni, a maneggiare l'amianto e più di cinquecento quelli tra la popolazione, che pure veniva in contatto con le micidiali polveri. Oggi a Casale ci sono circa 600 malati di asbestosi e cinquanta di mesotelioma e i morti per queste malattie aumentano: finora erano in media 25 all'anno, ma quest'anno hanno già superato quota 40. Solo nella terza settimana di novembre ne sono morti tre.
Inoltre nel 2009 sono già state effettuate 50 nuove diagnosi di mesotelioma. «Non era mai successo prima. Spero che questo significhi il raggiungimento del picco e che dal 2010 il tasso cominci a diminuire», commenta Bruno Pesce, il coordinatore del Comitato vertenza amianto, con cui abbiamo avuto il piacere di condividere una delle tante giornate di «estremo affanno» nelle stanze della Camera del lavoro di Casale Monferrato. Stanze dove quarantacinque anni fa iniziò la sua attività di sindacalista e oggi la prosegue come «volontario a tempo pieno» a di-
fendere la causa delle vittime dell'amianto.
«Reggiamo -spiega- grazie ad un nucleo attivo di sei o sette volontari a tempo pieno (che affiancano un operatore fisso, il sottoscritto e un altro sindacalista in pensione) oltre che all'appoggio logistico garantito dalla Cgil. Tra eredi e ammalati gestiamo migliaia di persone: tutti i giorni dobbiamo affrontare cento problemi e in questo periodo, in vista del processo, gli impegni si sono ovviamente moltiplicati: sono state organizzate molte iniziative, assemblee e manifestazioni, che coinvolgono molte realtà associative, le scuole di ogni ordine e tutte le società sportive di questa cittadina di circa 36 mila abitanti». Una città dove la vertenza amianto si estesa a largo raggio ma anche in profondità nella società civile. Contrariamente a molti anni fa quando la cultura generale dominante era quella che considerava normale che ci si potesse ammalare e morire sul lavoro, oggi a Casale il problema dell'amianto è talmente socializzato (sia tra coloro che hanno contratto la malattia e i loro parenti sia nell'opinione pubblica in generale) che tutti si sentono parte lesa nel processo di Torino.
Quotidianamente arrivano nella sede di Piazza Castello cinquanta o sessanta persone per costituirsi parte civile: giungono prevalentemente da Casale e dalla Provincia di Alessandria, ma anche da altre parti d'Italia e dall'estero, magari decenni dopo aver lasciato Casale. È il caso per esempio di un'anziana coppia di Salerno o di un uomo che ha vissuto per quarant'anni a Taiwan e in seguito si è ammalato. Un caso un po' estremo per la medicina ma reale.
Così come è reale il caso di cui Bruno Pesce è venuto a conoscenza proprio pochi minuti prima che lo incontrassimo. Quello di un uomo ultra ottantenne che potrebbe diventare un testimone chiave del processo di Torino, dove purtroppo sfileranno pochissimi ex operai della Eternit: più dell'80 per cento sono morti e altri sono in fin di vita.
Lui, invece, può ritenersi un miracolato: ha lavorato all'Eternit sia nel periodo belga che in quello svizzero (a partire dal 1973) fino alla chiusura dello stabilimento, nel 1986. Faceva il conducente di un cingolato Fiat con benna centrale che serviva per frantumare a cielo aperto su una piattaforma di cemento armato gli scarti di lastre, tubi e altri materiali in eternit. Lavorava senza alcuna protezione (solo negli ultimi due anni il mezzo fu dotato di una cabina) e dieci anni fa si ammalò: gli fu asportato un polmone, ma inspiegabilmente, è ancora vivo.
La sua testimonianza, spiega Pesce, è importantissima perché il sistema di smaltimento dei rottami di eternit è forse il fondamento decisivo per far scattare il reato (sulla base del quale si svolgerà il processo) di disastro ambientale doloso permanente. Le operazioni avvenivano a cielo aperto e quotidianamente: in giornate particolarmente ventose la polvere prodotta veniva trasportata ovunque, in particolare lungo la corrente del Po che punta dritto al centro della città.
Ma la polvere di amianto giungeva direttamente nelle case dei casalesi anche con altri mezzi: attraverso le tute da lavoro che gli operai portavano a casa per lavare, a cui si aggiunge il fatto che il centro abitato era attraversato dai binari lungo i quali venivano trasportati dalla stazione ferroviaria allo stabilimento Eternit i sacchi in juta non sigillati contenenti amianto che giungevano dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica.
Ma l'aspetto ancora più inquietante è un altro: la polvere della tornitura di migliaia di chilometri di tubi per fognature e acquedotti veniva anche smaltita a tonnellate distribuendola senza nessunissima precauzione alla popolazione. Veniva regalata o venduta per poco (100 lire a quintale negli ultimi tempi) ai dipendenti o ai semplici cittadini di Casale e di tutti i paesi limitrofi per essere reimpiegata nei modi più svariati: la polvere veniva bagnata per fare un battuto con cui realizzare un mar-
ciapiede, un cortile, una stradina per collegare l'abitazione con la strada o l'orto.  Oppure, peggio ancora, veniva sparsa asciutta sui solai e nei sottotetti per proteggere dal freddo abitazioni e condomini. Ancora oggi di questo polverino ce n'è molto in giro: sono centinaia i siti coinvolti.
«Questo –commenta Pesce- è uno degli elementi molto gravi, che va a sommarsi ad una conduzione degli impianti con scarse precauzioni. Anche se bisogna dire che su quest'ultimo fronte, con l'avvento del periodo svizzero nel 1973, alcuni interventi di contenimento del rischio furono adottati». Ma furono interventi insufficienti, vista la strage che si è consumata e che si sta consumando ancora oggi.


«I vertici dell'Eternit mentivano ma la loro parola contava più della nostra»
Intervista al coordinatore del comitato delle vittime, Bruno Pesce

Casale Monferrato – Signor Pesce, lei iniziò ad occuparsi delle vittime dell'amianto in qualità di sindacalista. Che ruolo giocò in tutta questa vicenda l'azione sindacale?
«Bisogna premettere che la fase svizzera dell'Eternit era stata preceduta da un avvenimento molto rilevante nella storia d'Italia: il movimento sviluppatosi alla fine degli anni Sessanta nel mondo del lavoro (ma sottovalutato nelle analisi di quel periodo) che portò nelle piazze milioni di salariati per rivendicare diritti fondamentali, significò infatti la conquista dello Statuto dei lavoratori. Statuto che prevedeva il diritto di assemblea e alle rappresentanze sindacali unitarie elette sui luoghi di lavoro nonché la tutela della salute del lavoratore. Come ovunque, anche all'Eternit questo permise grandi campagne di sensibilizzazione e di conoscenza, la registrazione di dati ambientali, l'introduzione dei primi libretti sanitari individuali e, successivamente, le prime rilevazioni di monitoraggio ambientale. Da lì in poi tutte le piattaforme di rivendicazione sindacali a livello aziendale contenevano disposizioni specifiche sull'ambiente di lavoro.
Anche all'Eternit furono dunque condotte battaglie specifiche con scioperi fino a settanta ore, che in parte produssero interventi di contenimento del rischio, proprio in corrispondenza dell'arrivo degli svizzeri. Non so se agirono in modo indipendente dall'iniziativa sindacale, ma questa fu importante per far emergere successivamente alcune verità che l'Eternit cercava di nascondere. Senza un minimo di tutela e di libertà sindacale, sui luoghi di lavoro regnano infatti solo la paura, le intimidazione e le ritorsioni e dunque si muore senza nemmeno sapere perché, come avviene ancora oggi in molti paesi del mondo».
Concretamente, in che modo intervennero gli svizzeri per migliorare la sicurezza?
«Apportarono alcune modifiche nel ciclo produttivo e nelle attività collaterali, ma esse erano del tutto insufficienti anche solo per ridurre il rischio amianto: c'erano ancora reparti completamente invasi dalla polvere in seguito ai continui guasti al sistema dei filtri. Inoltre, la lavorazione dell'amianto come l'apertura dei sacchi avveniva ancora a ciclo scoperto. Ciononostante alla fine degli anni Settanta, l'Eternit "documentò" all'Inail (l' Istituto nazionale infortuni sul lavoro) il superamento del rischio amianto. Senza consultare né il consiglio di fabbrica né tantomeno il sindacato, dichiarò che la lavorazione avveniva ormai in totale sicurezza in tutti i reparti salvo uno. Noi scoprimmo la cosa nell'81 grazie all'allora segretario del patronato Inca, che come Camera del lavoro avevamo distaccato all'Eternit per il riconoscimento delle malattie professionali e che in quegli anni ci consentì di avviare centinaia e centinaia di cause medico-legali (Casale aveva il tasso di contenziosi più alto d'Italia!). Lo scoprimmo perché la presunta sparizione del rischio amianto fece venir meno alcune prestazioni risarcitorie particolari dell'Inail, come la cosiddetta "rendita di passaggio", una sorta di pensione anticipata per coloro che si dimettono prima dell'età di pensionamento da un posto di lavoro a rischio.
Immediatamente, decidemmo di ricorrere alla giustizia ed ottenemmo ragione sia in primo grado che in Cassazione, dove fu confermata la sussistenza del rischio amianto in tutti i reparti dell'Eternit e pure al suo esterno. Purtroppo avevamo ragione, come confermò un decennio dopo un ex operaio con una testimonianza drammatica al processo contro i dirigenti locali dell'azienda. Si chiamava Giovanni De Michelis, era malato di cancro ormai in fase terminale, ma volle testimoniare nonostante la parziale incapacità respiratoria. È rimasta famosa la sua immagine mentre tutto imbacuccato varcava la soglia del tribunale portato in barella, così come quella del giudice che per cogliere il significato delle sue parole dovette scendere dal suo scranno ed appoggiare l'orecchio sulle sue labbra. Giovanni, che lavorò all'Eternit nel periodo di rischio "superato", morì pochi giorni dopo soffocato dall'amianto».
In che misura i dirigenti dell'Eternit poterono contare su complicità esterne, per esempio all'interno della classe medica?
«Sono due i fattori che generarono una sorta di complicità. Vi era innanzitutto un fattore culturale: all'epoca era socialmente accettato che degli operai potessero morire per soddisfare quelle necessità determinate dal tipo di sviluppo economico, sociale e industriale che era in atto. D'altro canto chi non pagava questo prezzo si riteneva al sicuro. La situazione iniziò lentamente a cambiare all'inizio degli anni Ottanta, quando ci si accorse che anche la popolazione veniva colpita: questo aprì un cuneo nell'opinione pubblica che in seguito si è sempre più allargato fino ad interessare anche alcune aree sociali della "Casale bene" che quasi per principio erano contro le lotte operaie e le istanze che provenivano dal mondo del lavoro. Lo facevano per partito preso perché si ritenevano messi in discussione dalle proteste e dalle rivendicazioni della classe subordinata, come se minacciassero il loro stato di privilegio. Per quanto riguarda la classe medica, anche negli anni più difficili ha espresso personaggi sensibili, ma erano pochi. Poi, piano piano, insieme alle omertà e ai vuoti di intervento con colpa (non denunciando una malattia professionale si viene meno ad un obbligo) abbiamo assistito alle prime importanti reazioni.
Il secondo elemento di complicità è invece dato dal fatto che l'Eternit non era proprio una "fabbrichetta", ma la più grande azienda del Monferrato casalese e una delle principali della provincia di Alessandria, una multinazionale con più stabilimenti in Italia, in Europa e nel mondo. Quando il rischio amianto veniva messo a fuoco, agli occhi dell'opinione pubblica, delle autorità preposte alla vigilanza e di una parte del mondo medico, la parola della Eternit contava di più della nostra. Purtroppo.»
Il sindacato cosa proponeva come soluzione? La chiusura della fabbrica?
«A Casale, l'approccio dei movimenti ambientalisti esterni al sindacato fu molto positivo e consentì di saldare un movimento che guardasse in faccia alla realtà fino in fondo, cioè che puntasse a superare il rischio amianto, ma facendosi carico della condizione del lavoratore.
Sin dall'inizio degli anni Ottanta abbiamo dunque chiesto la riconversione della Eternit attraverso l'utilizzo di materiale non nocivo. In questo modo si è data una prospettiva ai lavoratori alternativa a un lavoro di morte. Perché il lavoratore ha il diritto di portarsi a casa la busta paga. Un diritto che non può essere sacrificato sull'altare di una battaglia ambientalista».
E la chiusura del 1986 come fu vissuta dai casalesi?
«Lo stabilimento chiuse in seguito all'istanza di fallimento della stessa Eternit, che decise così di gettare via un limone ormai spremuto, che non serviva più. Preferì abbandonare precipitosamente Casale Monferrato, senza dover affrontare il tema della riconversione e occuparsi del futuro dei 350 lavoratori che erano rimasti in azienda e delle loro famiglie. Operai quasi tutti sulla cinquantina e quasi tutti malati di asbestosi. Dunque senza alcuna prospettiva di essere ricollocati: nei colloqui di lavoro bastava dire di aver lavorato all'Eternit per essere scartati in partenza. Solo qualche anno più tardi venne loro in soccorso la Legge sull'amianto, che non solo vietò la produzione e l'utilizzo di questa sostanza, ma introdusse anche una tutela dei lavoratori rimasti disoccupati attraverso il diritto alla pensione anticipata».
Dal processo di Torino cosa si attende il rappresentante delle vittime?
«Mi aspetto una grande operazione di verità, che la procura di Torino ha già messo in luce con un'indagine formidabile, eccezionale, mai tentata in Europa e, credo, nel mondo. L'impianto probatorio è molto solido e spero che lo sia a sufficienza per far confermare con una sentenza coerente una verità che già conosciamo. Concretamente questo significa riconoscere i morti, gli ammalati e i dovuti risarcimenti del danno. Spero inoltre che la sentenza funga da deterrente, che possa dare un contributo importante alla lotta mondiale contro l'utilizzo dell'amianto, che ancora avviene in tre quarti del pianeta (tutta l'Asia, salvo il Giappone, l'America latina, l'Africa). Perché è follia che così tanti Paesi continuino, solo per ragioni di costi, a ripercorrere la nostra strada e a prenotare la morte per ulteriori centinaia di migliaia di persone».

Pubblicato il 

04.12.09

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