Dietro lo specchio

“Ogni membro della società ha diritto alla sicurezza sociale”, nonché alla “soddisfazione dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità”. Lo dice la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite approvata nel 1948 dall’Assemblea dell’Onu. Soddisfazione di diritti che sembravano essere a portata di mano durante quei “magnifici 30 anni” seguiti al 2° conflitto mondiale, ma che hanno subito una lenta e progressiva frenata, diventando oggidì una chimera per una crescente percentuale di popolazione. Persone attive o pensionati senza un reddito sufficiente per coprire i bisogni fondamentali (vitto, alloggio, salute, vestiti) costretti a ricorrere all’assistenza che in Svizzera sebbene sancita dalla legge, mette i beneficiari sotto “cattiva luce”, spesso guardati da molti con sospetto, ”marchiati” di avere “poca volontà” o la  “schiena di vetro”.


Un problema ingombrante, trasversale ai paesi avanzati, tra cui la Svizzera, i cui governanti si dimostrano incapaci di affrontare e che la tenue crescita attuale non risolverà. Anzi i problemi attuali si amplieranno con la rapida diffusione della robotizzazione associata all’intelligenza artificiale che scombussoleranno ulteriormente il mondo del lavoro, il sistema di finanziamento del welfare. Non si esce dallo stallo attuale senza la consapevolezza che le ricette applicate finora risulteranno del tutto inadeguate e che, al pari di quanto avviene in campo tecnologico, occorra un’innovazione nei campi dell’economia e della politica che consideri alcune questioni:


a) la regolamentazione giuridica di tutte le forme di lavoro al fine di assicurare ad ognuno la “sicurezza sociale”; in particolare le forme atipiche che stanno diventando sempre più diffuse e saranno ben presto maggioritarie: da quelle note da tempo (lavoro autonomo, su chiamata, interinale...) a quelle emergenti come  i cosiddetti lavoratori “autonomi” alla Uber, o i crowdworker che offrono in rete le loro prestazioni;


b) la ridistribuzione del lavoro disponibile tramite una drastica riduzione dell’orario e/o la ripartizione del lavoro su più persone;


c) la ridefinizione del concetto di lavoro integrando a quella classica “di lavoro salariato” tutte le attività che direttamente o indirettamente generano valore d’uso. Ovvero quelle attività importanti e utili senza le quali la nostra società si bloccherebbe: svolte per la propria famiglia, o “volontariamente” per altri, per la società: lavoro domestico, educativo e di cura a bambini e giovani, assistenziale ad anziani e/o persone dipendenti...; attività per la gestione del bene pubblico, la valorizzazione del territorio; ma anche attività di tipo culturale: da quelle artistiche e di salvaguardia delle tradizioni a quelle che producono senso per la comunità;


d) la socializzazione della ricchezza prodotta mediante tassazione di tutti i fattori che concorrono alla sua produzione: oltre al lavoro salariato, anche i sistemi robotizzati/intelligenti applicati alla produzione di merci e servizi, nelle transazioni borsistiche e finanziarie, ad eccezione di quelle destinate ad investimenti di produzione. Senza dimenticare la ricchezza prodotta tramite i big data generati dall’analisi dei comportamenti sociali degli utenti che usano il web (come scaturito dallo scandalo Facebook- Cambridge analytica);


e) la ridistribuzione della ricchezza prodotta mediante l’adozione di un sistema di welfare 4.0 (per esempio l’adozione del “reddito di cittadinanza / di base” che superando il diritto all’assistenzialismo realizzi pienamente quanto previsto dall’art 22 della suddetta Dichiarazione universale.
Quelle menzionate, prese singolarmente, non sono idee nuove, la novità, semmai, consiste nell’applicarle congiuntamente.

Pubblicato il 

03.05.18
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